multisala

Un paio di sere fa al Medusa di Bologna, per vedere Il Signore degli Anelli. Patetico, goffo e disastroso tentativo di esorcismo. Come dice la canzone? "Sto spezzando i rami degli alberi sagomati da anni di ricordi, per esorcizzare i fantasmi da dentro me."

La formula, probabilmente, non era quella giusta. Ma vai a sapere tu... Imprudentemente, ad un certo punto, ho estratto dal cilindro le parole di una poesia del Malaguti, forse per vedere che effetto facevano, se reggevo l'impatto, se ero pronto.

un film molto bello
l'inizio la fine
anche l'intervallo
le poltrone a file
il pensare a te

Stupido intempestivo che non sono altro.

Fallire un esorcismo sottopone a conseguenze orribili. Il demone è libero di fare del suo peggio. Strappa, lacera il cuore con i suoi artigli: è la sua natura. Digrigno i denti ad ogni sua zampata, non ho altro rimedio che l'attesa.

Al telefono con un amico: "sei il solito esagerato"

devo

devo mettermi in testa che è tutto finito.

non è tutto oro...

Mettere in ordine i propri cassetti, in occasione delle lavatrici, può avere effetto terapeutico. Almeno per una mente quantomai sfasata, come la mia, capace di trovare appigli in ogni oggetto pervenga alla sua percezione. Nella fattispecie le T-shirt.

Dunque eccomi qui, lì, che riordino i cassetti, e mi capitano tra le mani alcuni dei pezzi a cui sono più affezzionato. La maglietta con scritto "Take Care Of Me", memore di gloriosi tempi musicali (se c'è qualcuno tra voi - impossibile!! - che ricorda i Subway, ignoto gruppo wave ferrarese, gridi "change!"); quella con scritto "GOD LISTENS 89.3 FM" regalatami da Deddy (Didy) la predicatrice; quella con "The 3 Tees of Golf: vani-Tee, insani-Tee, profani-Tee", regalo di mia madre di quando zappavo i campi pratica di Houston con un ferro 7 (azz! Mi sta stretta!); quella con su "Open Air - Outdoor Poetry", fatta fare in occasione di uno dei volantinaggi di poesia (e passata sotto l'impietoso ferro da stiro di Mani-di-Fata, la colf-terminator, tutta sbavata e quasi illeggibile, poverina); quella con la grafica della Casa Sfuggita e l'inquietante tag-line "Le Temps Court - Le Sang Court", che ho fatto fare durante le riprese del film (ne ho fatta fare una per tutto il cast e la troupe spendendo un'ingiustificabile follia, ma ne è valsa la pena).

Non so spiegare... mi piace portare addosso qualcosa che dica di me. Sono un po' americano, in questo senso. Mentre ero in Texas ho notato un particolare inquietante. Tra tutto quello che hanno in ballo gli americani, se c'è qualcosa su cui sono dannatamente seri sono le T-shirt. Quello che portano addosso è un simbolo di ciò che sono o fanno. Se vedi qualcuno con una maglia della Rice University, puoi star sicuro che studia alla Rice. Se qualcuno porta scritto sul petto "Beer Is My Religion", non c'è dubbio che la sua chiesa sia il liquor store all'angolo e che si confessi solo ad un six-pack di Miller Lite. Le donne incinte vestono l'ormai tradizionale T-shirt con "Baby Here!" e una freccia che indica il ventre. Le ultime che ho visto, lo scorso ottobre, erano le T-shirt indossate con orgoglio da alcuni pazienti, con sopra il disegno dell'organo ricevuto, in posizione anatomicamente corretta, e la scritta "I'm A Kidney (o Liver) Transplant Recipient". E, beh, non c'era alcun dubbio su chi fossero.

A suo tempo, ho capito in pieno l'incredibile livello di "esibizionismo da T-shirt" grazie ad una maglietta che vidi addosso ad una studentessa. Il testo leggeva: "ALL THIS (sulla stoffa ben tesa dalle curve dei generosissimi seni) and a Ph.D." (Qualcosa di simile appare nello splendido fumetto di Frank Miller "The Dark Night Returns", dove una procacissima commentatrice televisiva sosia di Brigitte Nielsen indossa una T-shirt con scritto "ALL THIS - and brains too").

Memore di tutto questo, non sono quasi riuscito a rimanere serio giorni fa, allo sportello bancario in cui la bella cassiera ostentava una maglia attillata sulle prominenti rotondità del seno, con la scritta in lettere dorate (le "o" di "oro" strategicamente posizionate ai posti giusti): "Non è tutto ORO quello che luccica". Sbaglierò, ma ormai l'ho battezzata come rifatta.

happy hour

Oggi mi hanno telefonato in quattro, e tutti volevano sapere come stessi. Ora sto pensando a cosa ho fatto o detto nei giorni scorsi per provocare quest'ondata di allarmismo nei miei confronti. Buio. Non capisco. Considerando anche quello che NON HO fatto o detto, non mi sembra proprio di aver potuto dare adito a preoccupazioni. Non che me ne abbia a male, eh. Ma... che siano diventati tutti sensitivi?

Quindi ecco qui, questo è il momento dei buoni propositi per l'anno nuovo. Un po' in ritardo, l'ammetto. Per lo meno siamo ancora in gennaio. E il mio proposito di quest'anno è: essere meno trasparente.

Comunque, come mi sento?

Senza mani.

(Diavolo, ho la solita storia lacrimosa sulla punta delle dita. Perdonatemi se potete.)

Ovviamente ero a Houston. Novembre 1992. Halloween era passato, portandosi via zucche e fantasmi. E io soggiornavo ancora al Residence Inn, mentre cercavo un appartamento. L'albergo fa riferimento soprattutto al Medical Center, e la maggior parte degli ospiti sono pazienti di un qualche ospedale. Si vedono cose (riguardo a persone, intendo) che possono turbare.
Il Residence Inn non ha ristorante, visto che le stanze sono in effetti dei monolocali forniti di tutto, cucina compresa. Però tra lobby e piscina c'è una saletta dove tutti i giorni c'è (o c'era, è un pezzo che non vi soggiorno più) l'happy hour. Bevande e schifezze tex-mex a go-go. Alla fine mangi più che a cenare in una steak-house.
Essendo impossibilitato a bere, data la mia condizione di emodializzato, avevo una certa cura ad evitare i cibi piccanti. Ma c'era qualcosa da cui non riuscivo a tenermi lontano: i pop-corn. Ricordo questa enorme teca di vetro piena di pop-corn caldi e fumanti. Ed era l'happy-hour: potevo prenderne quanti ne volevo, e tornare a prenderne altrettanti, e ancora e ancora, se l'avessi voluto. Bastava aprire lo sportellino e affondare l'apposito cono di carta in quello spumeggiante mare bianco-dorato.
Eccomi lì, col cono di carta in mano, in fila per la seconda razione di pop-corn, e davanti a me c'è questo bambino. Avrà avuto forse undici anni, ed era impegnatissimo ad aprire lo sportellino della teca dei pop-corn, la madre che vigilava a un passo di distanza.
Dopo molto più del tempo normalmente necessario per compiere l'intera operazione mi prende un moto d'impazienza.
"Ma sei impedito?" borbotto tra me e me.
E' quando mi accorgo che il piccolo non ha le mani.
A loro posto due rudimentali arti prostetici, che il bambino manovra con la goffaggine di chi vuol fare troppo in fretta ciò a cui non è abituato.
La madre si accorge di me, e con un sospiro rassegnato e uno sguardo pieno di una sconsolatezza e una disperazione che non dimenticherò mai, dice al figlio di lasciarmi il posto e a me fa cenno di procedere.
Dopo un attimo di esitazione mi disseppellisco quel tanto che basta per dirle che non importa, non ho fretta, il ragazzo si prenda il tempo di cui ha bisogno. Ma lei insiste. Le basta un "please" e uno sguardo che dice: "apprezzo il gesto, ma fai come ti dico".
Improvvisamente non ho più nessuna voglia di pop-corn. Ma mi faccio avanti, e pesco la mia dose media giornaliera. Sorrido, ringrazio e saluto e vengo a mia volta salutato da madre e figlio.
Supero la piscina, svolto a destra, verso la mia camera. Butto i pop-corn nel primo bidone della spazzatura che mi capita a tiro.
Un bel posto il Residence Inn. Ci ho imparato tante cose, nel poco tempo che vi ho soggiornato. Una di queste è che ciò che per te è una stupidaggine, per qualcun altro può essere la cosa più importante del mondo.

Senza mani. E' così che mi sento a volte, in questi giorni. Come se tutto fosse lì. Tutto il ben di Dio della vita. Dentro la teca dei pop-corn. E io, con le mie mani finte, non riuscissi neanche ad aprire lo sporellino.

"what's your poison, man"

Cielo dei bars
(Buscaglione-Chiosso)

Ci vediamo al fondo di un bicchiere
illusione che non so dimenticar
ogni notte ti devo ritrovare
nel mio cielo popolato di bars

Ci vediamo al fondo di un bicchiere
dolci labbra che non posso pìù baciar
voglio perdermi e sognar
fino a quando può durare
tristemente l’orizzonte di ogni bar

Da principio non ti vedo
troppo whisky mi separa da te
ma poi bevo e a poco a poco
tu mi appari e sei tutta per me

ci vediamo al fondo di un bicchiere
fino a quando l’alba in cielo tornerà
e nell’alba disperata
sarà triste rincasare
per attendere la notte
e poterti ritrovar
al fondo di un bicchiere
nel cielo dei bars




...diavolo! E io che sono astemio :-(

this just in

A volte la vita, tra un colpo di crik sulle gengive e l'altro, ti riserba qualche bella soddisfazione. Per esempio aprire un pacchetto arrivato fresco fresco da Amazon.com, e trovarci dentro un dvd sulla cui copertina c'è il tuo nome.

Rigiro l'oggetto fra le mani, fremendo, chiedendomi: avrò mai il coraggio di togliere il cellophane? Ce l'ho. La curiosità di provare l'audio in tedesco 5.1 sul mio impianto è troppo forte. Stì tedeschi... Hanno fatto proprio un bel lavoretto. E non solo nel packaging o l'authoring del disco. Senti qua come vibra il pavimento. E anche l'audio in italiano non è male, anche se è solo in 2.0.

Ma la chicca delle chicce è la traccia audio col "Audio-Kommentar von Register & Drehbuchautor" (io). A dir la verità, quando l'abbiamo registrata, a dire la loro c'erano pure Magi e Francesco (effetti speciali e Boris), e quindi la scritta sulla copertina non è del tutto corretta. Dovrebbe essere "commento audio del regista, dello sceneggiatore, dell'uomo del sangue e di Boris" :-). Il risultato è... indefinibilmente intrigante (fa un po' impressione sentire la propria voce blaterante uscire dai diffusori pro-logic).

Dopo un po' m'ipnotizzo a guardare le immagini che scorrono sul video. I neuroni mesmerizzati si rilassano, staccano la spina. Posso quasi sentirli: click, click. click. Rimango lì, affascinato e decerebrato, con la bocca aperta che cola un filo di bava sul pavimento. E ogni tanto, faticando ad articolare la parola, dico: "bel-lo"...

...e dentro il cranio vuoto una voce echeggiante risponde: "an-co-ra"...

the season of dreams

Cielo terso fuori dalle finestre. Nebbia nel cuore. Torpore. Dolore, a volte. Vorrei un cielo così basso da poterlo toccare, allungando la mano. E arrampicarmi sulle nuvole per fare una passeggiata, affondandovi i piedi come nella neve fresca.

Altro sogno, stanotte. Di quelli che ti lasciano in bocca il retrogusto un po' barricato del divinatorio. Gusto che non se n'è andato nemmeno dopo martellate di caffè, dopo il piatto più speziato che sono stato in grado di trovare per pranzo.
La cercavo, in quella casa grande che non riconoscevo. Un labirinto di stanze e corridoi che sapevo lei avrebbe odiato. Nessuna armonia in quei muri, nè proporzione. Corridoi che rubano spazio a stanzette striminzite e ombrose. La pensavo intenta a soppesare il tutto con gli occhi, immaginando cantieri per sistemare questo e quello. E intanto la cercavo, aprendo una porta dopo l'altra, gettando rapide occhiate dentro ogni stanza, ogni sgabuzzino, l'ansia che aumentava lentamente.
Poi, eccola. Anzi, eccole. Sono in tre, e nessuna di loro le assimiglia. Ma è lei. Io lo so. Una di lei distoglie lo sguardo, fingendo (è fin troppo ovvio) di fare qualcosa di indefinito. Una mi sorride, si alza, si avvicina, si mette alle mie spalle, così che non possa vederla. La terza è sparita. La cerco con gli occhi senza trovarla, girando su me stesso. La ragazza alle mie spalle si muove "in dolce accordo" per mantenere la sua posizione relativa, dietro di me.
Percepisco un movimento, una porta che si apre. Eccola, ritorna, con un grande sorriso sul bel volto luminoso. Si allunga e mi sfiora le labbra con le sue. Ma io sono turbato. Non so cosa mi prenda, devo allontanarmi. Faccio un passo indietro, finendo tra le braccia di lei dietro di me. Braccia sottili e abbronzate che mi avvolgono il petto. Sento il suo calore, il suo seno contro la mia schiena. La testa appoggiata al mio collo. I suoi singhiozzi che mi cullano, lentamente, lentamente. Mentre il buio avvolge tutto, tutto sfuma nel buio.

Non so quanto tempo è passato, al momento del risveglio. Avvolto dal piumino, è come se sentissi ancora la sua testa appoggiata alla mia schiena, come se la stesse accarezzando col viso. Penso al freddo che fa fuori. Penso alla sciarpa, i guanti, l'auto congelata. Penso alla strada, al freddo, all'ufficio, al lavoro. Penso: "Non mi alzo. Non mi alzo. Mi riaddormenterò e sognerò ancora e ancora..."

...e ancora, e ancora, e ancora...

E' ancora lì, il gusto. La barrique. Non mi ha lasciato per tutto il giorno. Nera come la notte, dolce come un bacio rubato.

E... beh... credo che andrò a letto, ora.

these foolish things...

Salterò la cena, credo. Ormai i ricordi mi nutrono come una buona bistecca con contorno di patatine al forno.


"These foolish things"


A cigarette that bears a lipstick’s traces,
An airline ticket to romantic places,
And still my heart has wings...
These foolish things remind me of you.
A tinkling piano in the next apartment,
Those stumbling words that told you what my heart meant,
A fairground’s painted swings...
These foolish things remind me of you.
You came, you saw,
You conquered me.
When you did that to me,
I knew somehow this had to be.
The winds of march that made my heart a dancer,
A telephone that rings,
And who’s to answer?
Oh, how the ghost of you clings...
These foolish things remind me of you.
The first daffodil and long excited cables,
And candle lights on little corner tables,
And still my heart has wings...
These foolish things remind me of you.
The park at evening when the bell has sounded,
The ’ile-de-france’ with all the gulls around it,
The beauty that is spring’s...
These foolish things remind me of you.
How strange, how sweet
To find you still,
These things are dear to me,
They seem to bring you near to me.
The sigh of midnight trains in empty stations,
Silk stockings tossed aside, dance invitations.
Oh, how the ghost of you clings!
These foolish things remind me of you...
These foolish things remind me of you.
Oggi in ufficio, guardando il collega dell'ufficio hardware all'opera, non ho potuto fare a meno di ripensare ai racconti che i miei amici facevano della leva. Io l'ho scampata con un mese di ospedale militare (durante il quale "ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi..." ma questa è un'altra storia), e quindi al mio repertorio mancano i succosi aneddoti da caserma. Non che mi lamenti, ma se non fosse stato per i pochi amici che invece in caserma sono stati eccome, oggi non potrebbe venirmi in mente nulla di anche solo paragonabile al Minuto Mantenimento. Questo consisteva (e forse consiste ancora) in una piccola (minuta) squadra di uomini che, muniti di minuta attrezzatura contenuta in un minuto carrettino canonicamente dipinto di verde, provvedeva, a comando, alla soluzione dei minuti problemi manutentori che possono nascere in una caserma. I risultati non sempre erano prevedibili. Un tubo perdeva nelle latrine? Dopo l'intevento del Minuto Mantenimento era necessario evacuare la camerata. Una lampadina bruciata? Passava il Minuto Mantenimento e, oplà!, l'intera caserma rimaneva al buio.
Così oggi. Una collega sperimenta problemi di stampa sulla stampante condivisa? Arriva l'uomo dell'hardware e, oplà!, nessuno riesce più a stampare da nessuna parte. L'amministratore di rete aggiorna l'antivirus, ed ecco che il server defunge per un paio di giorni. Il ced installa l'ultima release, nessuno riesce più a stampare sulla stampante condivisa. E da capo.

Ah, l'informatica!

[Comunque, l'episodio militare più bello raccontatomi da un amico (il mitico Serj) rimane quello del fax. Si presentano a rapporto in caserma alcuni soldati dicendo di essere trasferiti lì. Nessuno ne sa niente. Strano, dicono, eppure abbiamo spedito un fax. E in effetti è vero, il fax arriva dopo qualche tempo. L'avevano imbustato e spedito per posta ordinaria!]

the dam (almost) bursts

Prima di tutto non ho mantenuto la promessa. Sono qui e scrivo nonostante non abbia finito ciò che stavo facendo. E' sconfortante. Non sono mai tanto lontano dalla fine come quando mi basterebbe un passo per raggiungerla.

Un problema alla volta.

Sere fa ho chiamato P.
Sentivo il bisogno di dire a qualcuno che mi mancava e con lei ho potuto farlo a ragion veduta, e senza creare nè scompiglio nè perplessità.
Lei sta bene, a parte l'essere caduta in un pragmatismo sentimentale che mi disturba e, incidentalmente, mi spaventa. Forse è invidia per una dimensione mentale che non credo riuscirei a raggiungere. Sì, credo di poter dire che P. sia ormai un'illuminata "fachira". Dal suo punto di vista, ovviamente, sta bene.
Poi è arrivato il mio turno, e allora sì che ho avuto paura. Sentivo gli scricchiolii delle crepe che si aprivano nella diga, lo zampillare dell'acqua infiltrata, mentre dal bacino a monte premevano milioni di ettolitri di parole.
Ma per miracolo la diga non è esplosa (ora sono in corso massicci interventi di riparazione e puntello).
Pure, la fragilità che non ho potuto nascondere - errore mio: dissimulare è molto più semplice che simulare... la prossima volta ci starò più attento - è servita all'illuminata fachira come appiglio per poter dispensare un po' di quella saggezza che ora pervade il suo spirito. (Apro l'ennesima parentesi per chiarire un punto, le voglio bene... solo, da un po' di tempo il suo scarso contatto con la realtà la rende pericolosa quanto un bambino che per caso abbia scambiato la pistola del costume di carnevale di Tex con quella vera, carica, e senza sicura del babbo poliziotto... è dura schivare i colpi, e qualcuno è andato anche a segno - chiusa parentesi)
Comunque l'idea illuminata sarebbe quella di mettermi lì a tavolino e odiare la cantantessa. Sì, avete letto bene: odiare a tavolino. E sapete qual'è stata la cosa più spaventosa in assoluto? Che per un attimo, mentre riattaccavo, per un infinitesimale istante che mi ha sferzato peggio di uno schiaffo, ho pensato che quello potesse essere un buon consiglio.

we want information... information... information

Accendo l'abat-jour e lancio un'occhiata alla sveglia: 0:07. Uhm... degno di un film di James Bond. Sono andato a letto un paio d'ore fa, in preda a questa nausea più esistenziale che fisica. Naturalmente ho sognato la cantantessa, e ora, le 0:16, perfettamente sveglio, mi rimpallo la domanda come fa Steve McQueen con la palla da baseball nella cella d'isolamento in La Grande Fuga.

Slam! Boing! Perchè?
Slam! Boing! Perchè?
Slam! Boing! P...

Patrick McGoohan, in uno degli episodi de "Il Prigioniero" (vi ricordate? "Who are you?" "The new number Two." "Who is number One?" "You are number Six" "I'm not a number! I'm a free man!" Risata), il Prigioniero, dicevo, dette da mangiare questa stessa domanda a un enorme e (a quei tempi) sofisticatissimo computer, mandandolo in corto e facendolo saltare in aria. E' per questo, dunque, che sono così scombussolato?

(Slam!) Sarà una (Boing!) lunga notte...

...perchè?

steppin' back

Un passo indietro. Willett e la moglie di Ward s'intrufolano di nascosto nel laboratorio. Assistono a qualcosa che li sconvolge al punto di far loro perdere i sensi. Si risvegliano il mattino dopo, seduti in auto, ma lo shock è stato tale che nessuno dei due ricorda niente della notte prima.

Non è squisitamente lovecraftiano?

Cosa deve fare uno che scopre di lavorare meglio di notte? Gesù, sono in ritardo, in tremendo ritardo. Spero di non mandare tutto al diavolo. E ci si è messa pure la cervicale...

Mi manca veramente poco, ma non mi farò più vivo qui finchè non avrò finito. Tenete duro, cercherò di fare in fretta :-)

pochi aggiornamenti

Cervicale fulminante.
Pochi minuti a leggere i blog del cuore e poi a nanna.
Vi penso, amici. Anche se non so cosa, esattamente, pensare.

Mr. Ward è dentro un elegante armadio laccato. Il suo cadavere, intendo. Lo lascio lì per stanotte, sono certo che non me ne vorrà. Domani risolverò il problema assieme a J. Curwen. Ma Willett è un ficcanaso, e potrebbe arrivarci prima. Chissà. D'altronde è il buono, è previsto che sia d'impiccio. Alla fine, con un po' di fortuna, potrebbe riuscire anche a farsi la bella vedova.

Buona notte.
(Ho già detto che vi penso?)

server down

Mr. Ward non me ne vorrà se lo trascuro un po'. Tanto più che il suo avo e sosia Joseph Curwen l'ha già fatto fuori e ne ha preso il posto.

Il lunedì è sempre una giornataccia. Oggi, iniziata con una visita dermatologica all'ospedale (roba da terzo mondo), arrivo in ufficio a metà mattina per scoprire che il server è caduto (Si sarà fatto male? Rimembranze infantili del mitico SuperGulp. La vocina della sigla originale, quella prima di "Jumbolo": "Fumetti in ti-vù, fumetti in ti-vù-ù-ù-ù." Nick Carter del compianto Bonvi, e le sue deliranti indagini pseudonoir. Campo lungo della metropoli e voce off: "mentre su New York cadevano, facendosi anche male, le prime ombre della sera..."). Dunque il server è giù. Aleggia un'aria che fa molto carnevale di Rio. Visitatori dai piani superiori transitano sorridenti per i corridoi portando a spasso i loro caffè. Addirittura il capo esce per una riunione in sede! Una congiunzione astrale che si manifesta forse una volta ogni millennio. Ma ad un certo punto mi rendo conto che sto lavorando. Io.
Scena:
int. ufficio - giorno
Due impiegate sedute non sulle sedie ergonomiche ma sulle rispettive scrivanie, ciacolano tranquillamente dei posti migliori dove fare la spesa perchè tanto il server è giù.
Il loro collega è seduto "alla" scrivania, con alcune pile di fogli di diverse altezze. Si affanna tra pc, che riesce a usare anche se il server è giù (per qualche oscura ragione oggi il fato gli ha riservato una serie di lavori per i quali il server è superfluo), calcolatrice, scatole d'archivio.
Panoramica indietro. Un altro collega entra nella stanza, gli molla l'ennesima pratica sulla scrivania, mettendosi poi a ciacolare con le ciacolanti. Stacco (rapidamente) su:
Dettaglio: l'occhio iniettato di sangue.
Dettaglio: la strisciata della calcolatrice che si srotola con rumore meccanico.
Dettaglio: fogli che passano da una pila all'altra.
Dettaglio: ancora la strisciata, ora più lunga.
Dissolvenza incrociata con:
(ellissi)
Dettaglio: la calcolatrice è quasi sommersa da metri di carta ricoperta di calcoli.
Dissolvenza in chiusura.
Addetto dell'ufficio Hardware (over): "Forza gente! Il server è di nuovo sù!"
Coro di lamenti.

baker baker

Baker Baker baking a cake
make me a day
make me whole again
and I wonder what's in a day
what's in your cake this time

"Baker Baker"
T. Amos, Under the pink
Bene, allora è deciso. Eventuali nuovi sogni troveranno rifugio in questa sede. Promettetemi però di non psicanalizzarmi troppo... anche se so (conoscendo il tenore dei regali che Lord Morfeo è uso farmi) che sarà una promessa difficile da mantenere.
Confesso che anch'io sono rimasto sospeso, ansioso, mentre le immagini del sogno si disperdevano nella lucidità della veglia, inappagato dall'orrenda troncatura.
E ho dimenticato di menzionare che la ragazza mora, oltre al suo numero di telefono, mi aveva scritto una frase in una lingua slava che nel mio sogno capivo perfettamente, ma che da sveglio non conosco affatto. Il messaggio scritto sul foglio di cartone dalla ragazza mora, e che ho avuto un solo istante per leggere, diceva: "Aiutami. Chiama subito il 338..." E più sotto, scritto molto in grande: "Il mio nome è Anja."
Non vi capita mai, nei sogni? Di ricordare lingue dimenticate? L'antico egizio, il latino medioevale? Di saper dare suoni ai geroglifici o ai caratteri gotici, con scioltezza e disonvoltura, come se li aveste sempre conosciuti e parlati?
Nei nostri sogni a volte ricordiamo come volare, ma al risveglio lo dimentichiamo sempre.

dream the dream of you

Freddo. Un freddo cane. Non mi sento più la faccia. Due passi in centro, un trancio di pizza da portare via (cena), una capatina in libreria. Quando sono depresso faccio sempre una capatina in libreria. Quando sono molto depresso leggo tutti (tutti!) i risvolti di copertina e alla fine non compro niente. Quando sono oltremodo depresso compro anche i muri.
Ritorno guidando tra gli indisciplinati concittadini. La prossima volta, per stupirmi dovranno superarmi sorvolandomi. Che vergogna, abitare in città e uscire in macchina (pure in riserva). Ma c'è un freddo... e mentre rientro vengo preso da uno dei miei momenti di separazione dall'anima. Cala il silenzio. L'autoradio è un sussurro ovattato. Gli stop dell'auto che precede, una lucida BMW fresca di concessionario, mi guardano rossi e maligni come gli occhi di un vampiro. La prospettiva dei lampioni in viale Cavour si perde nell'infinito dei miei pensieri...
Un sogno, la notte scorsa. Di quelli che rimangono, ristagnano e fermentano. Alcuni diventano storie, altri rabbiosi mal di testa da abbattere con fucilate di aulin.
In questo guidavo, un'amica al fianco, lungo un non precisato raccordo stradale. A dir la verità anche l'amica non era tanto precisata, essendo una figura nebulosa i cui tratti ricordavano a volte E. e a volte P. Comunque mi sentivo a mio agio, ed è già un buon punto di partenza.
Seguo le indicazioni di E/P e prendo una rampa, per poi accorgermi che non è la strada che dobbiamo prendere. Inizia così un'accesa discussione che termina con la decisione di fermarsi all'imminente area di servizio e chiedere. Improvvisamente non sono più io a guidare, ma E/P, e l'entrata in area di servizio è degna di un film di James Bond. Sfasciamo la macchina, che una volta sceso mi rendo conto essere una vecchia Y10, e chiediamo al benzinaio la strada per Ravenna. Nessun problema, basta prendere lo svincolo successivo a destra e seguire le indicazioni. Per mettere a posto la macchina ci vorranno pochi minuti. Io guardo il rottame fumante su cui siamo arrivati, un po' scettico.
Mentre aspettiamo, P. (ora è sicuramente P.) è galvanizzata all'idea dei nuovi pneumatici leopardati che monteranno sul nostro rottame, vicino a cui ora è parcheggiato un furgone che una ragazza mezza nuda sta lavando con una grossa spugna insaponata. Le passiamo vicino dirigendoci verso una panchina, e P. mi dà di gomito indicandomi l'interno del furgone, stipato di belle ragazze. "Guarda quanta figa!" dice, lasciandomi di sasso. E' un qualcosa che non uscirebbe mai nè da P. nè da E. (e considerato che secondo Freud siamo tutti i personaggi dei nostri sogni, deve per forza essere farina del mio sacco).
Incredibile a dirsi, il panorama è meraviglioso. Una distesa di dolcissime colline verdeggianti dietro le quali stà per calare il sole. Approfittando del momento magico, cingo i fianchi di P. con un braccio. Sento la sua mano che prende la mia. E proprio sul più bello ecco il benzinaio, che fa rotolare un pneumatico leopardato al suo fianco mentre cammina. P. lo raggiunge di corsa, io rimango dove sono, scornato. Ma dopo un istante mi accorgo di tenere ancora una mano stretta nella mia. Non è quella di P., non lo è mai stata. Mi volto e vedo una ragazza dai lunghi capelli scuri, seduta sulla panchina accanto a me, un po' scostata (in mezzo c'era stata P.). Mi sorride e lascia la mia mano, timida ora che mi sono accorto di lei. Io sono più che interdetto. Non so davvero cosa pensare. Cerco con lo sguardo P. e il benzinaio, ma non sono in vista. La ragazza si alza, va verso il furgone. Mi alzo per seguirla, ma nello stesso istante sopraggiungono sia P. col benzinaio, che un tizio minaccioso che altri non è che il proprietario del furgone.
Inizia un dialogo tra me, P. e il benzinaio, ma non lo seguo. Dietro le teste dei miei interlocutori, la ragazza mora scrive qualcosa su un grande foglio di cartone, poi lo gira verso di me. E' un numero di telefono. 338... non faccio in tempo a leggerlo, perchè arriva il proprietario del furgone che mi dà un paio di spintoni e mi minaccia in un italiano stentato ma più che efficace. Io, da bravo pusillanime, allargo le braccia facendogli capire che ho capito perfettamente. La ragazza però è più furba del sottoscritto. Mentre il tizio s'impossessa del cartone, lei mi mostra sorridente un altro foglio di carta, lo appallottola, e lo getta sotto il fugone. Rispondo al suo sorriso, scuotendo un po' la testa, incredulo e affascinato mentre il furgone si mette in moto e se ne va. Cosa potrà mai accadere ora?
Cosa davvero, visto che la sveglia suona in quel medesimo istante (dimenticanza imperdonabile! il sabato mattina si dorme!!), e non lo saprò mai. Non mi rimane che trascinarmi in cucina, preparare il caffè, ed evitare l'esplosione della testa con un generoso dosaggio di Tylenol.
Apro la porta di casa e accendo la luce. Deposito l'enorme sportata di libri che ho comprato sopra la cassettiera, schiaffo il trancio di pizza nel microonde, mi deflagro sul divano e mi tolgo le scarpe. Penso: "forse non è il caso di raccontare i miei sogni sul blog... potrebbero pensare male..."

piove anche laggiù

Lo specchio magico riflette le mie molteplici immagini. Am I a lizard? Quello che faccio sono. Quello che dico, a volte, idem. Antillettuale. Fiacco. Piegato dal peso della mia presunzione. Ferito. Sì, ferito. Questa è l'ultima diapositiva del caricatore. Dopo, il buio. Io, colonnello dell'esercito di Sua Maestà, uniforme rossa elmetto bianco, baffi da tricheco e basette, vecchia ferita di guerra che ogni tanto si riapre. Torno da luoghi esotici, dove le palme ondeggiano al vento, le donne cantano con voci da sirene. Nella calma tristezza della vecchiaia ricordo il sapore, il profumo ineffabile, il calore, la risata cristallina del mio amore coloniale. L'amo ancora, e al solo pensiero delle terre lontane le medaglie sul petto dell'uniforme diventano moneta fuori corso. Piove, nella mia piovosa patria. Ma un monsone non eguaglierebbe le mie lacrime di nostalgia.

come potrei

Bene, su suggerimento di un'amica, aggiungo alla lunga lista dei miei complessi pure la sindrome del sopravissuto.

1992. E' ottobre, quando sbarco in Texas. Zucche, streghe e fantasmi ovunque. A causa della solita convention non si trova altro posto che allo sciccosissimo Adam's Mark Hotel che sta lontano una cifra dal Medical Center, e in più costa un fottìo. Per cui fuggo appena posso (un paio di giorni). Dopo una notte al terrificante Vigo Inn (il Bates Motel deve pur avuto un esempio da cui imparare), trovo il paradiso al Residence Inn (o Terence Hill, secondo i napoletani giunti mesi dopo).
Al Residence Inn di italiani ce ne sono tre, me compreso, e tutti lì per motivi medici. Nel giro di qualche mese gli altri due muoiono, io no. Da quel momento, in presenza della bella figlia del geometra B. e della moglie di A. (vedova, maledizione, devo ricordarmi che è vedova). non riesco più a stare. Evito contatti, pensare a loro (anche con l'affetto che è inevitabile condividere, quando ci si trova tanto lontani da casa e sottoposti a cure dolorose) in mi mette a disagio. Mi sento in colpa perchè io sono vivo e loro no. Per quanto stupido possa sembrare è così, e non auguro a nessuno trovarsi nelle medesime condizioni.

E ora questo.

Qualche giorno fa se n'è andato un amico di famiglia.
Sono qui che guardo un'enorme sportata di medicine che sono state sue. Ciclosporina da 100, da 50 e da 25 mg, prednisone da 5 mg. Le scatole gialle e blu che premono contro il cellophane. Ne avrò per diversi mesi. Conosco persone che, per motivi scaramantici, si guarderebbero bene dall'usare questi farmaci e piuttosto getterebbero tutto nell'immondizia. Nonostante il disagio, come potrei io? Non conoscevo bene il de cuius, ma ugualmente, come potrei? Come potrei?

mad doctor

So, come up to the lab
and see what's on the slab


Non dovrei essere io a dirlo, ma... sta venendo proprio bene!

linciaggio Lynch

Per darmi una stuzzicatina alla corteccia celebrale, sede, si sà, della creatività, ed evitare l'uso di droghe psicotrope ho pensato bene di rivedermi Strade Perdute di David Lynch. Quindi per i prossimi due giorni vagherò in giro come un sonnambulo, cercando di districarmi tra le stranezze che fioriranno da suddetta corteccia come gerani sul davanzale.

Più tardi - sento già il pizzicorino nel cranio -, potrò anche lasciare un commento nella scheda della Casa Sfuggita su IMDb, rispondendo al tanghero che dice che i film del ciclo di Reanimator sono molto più fedeli a Lovecraft. I casi sono due: o il tanghero non ha mai letto Lovecraft, oppure non ha mai visto i film del ciclo di Reanimator. Parliamoci chiamo: a trenta cm da dove sono ora è appesa una foto di scena del film Dagon autografata da Stuart Gordon (trofeo della mia spedizione al H.P. Lovecraft Film Festival). Quindi non è che li disprezzi. Sono divertenti, se hai lo stomaco per sciropparteli. Ma hanno a che fare col Maestro di Providence molto, molto, molto alla lontana. Talmente alla lontana che per arrivarci hanno bisogno di una guida alpina.

Per la cronaca, non è che sia così semplice adattare Lovecraft allo schermo. Gordon ne ha fatta una cosa (molto più) sua che altro, ma è stata una scelta. Rimanere fedeli alla lettera di HPL in genere ha il prezzo di inimicarsi la parte di pubblico che preferisce ritmi serrati e sangue a ogni piè sospinto, piuttosto che una trama inquietante, ma ragionata e spesso complessa. Per carità, le due scuole di pensiero debbono godere di pari dignità! Ma Lovecraft appartiene per certo alla seconda.

Mi spiace, tanghero mio, ripassati la lezione e ne riparleremo.

diamoci 'na mossa

Ritorno in ufficio con il morale tra le dita dei piedi. Mi sono abituato troppo bene, abbandonatomi così all'indolenza come ho fatto durante le feste. Ma anche troppo tempo per pensare, troppe occasioni per concentrare i pensieri su uno specifico argomento che, in teoria, la mia politica del vivere per l'oggi ignorando ieri e l'ombra che questo proietta sul domani mi vieterebbe di affrontare. Puah!

Routine, routine, routine.
Ho trovato ad aspettarmi le solite scartoffie, le solite facce, le solite battute. Durante la pausa pranzo, nel centro commerciale ancora vibrante per le scosse tellurico-natalizie, sgomitare nella ressa mi ha fatto sentire come un trilobita nella melma, destinato a diventare un fossile sullo scaffale di qualche appassionato.

Spengo il pc, le stampanti, chiudo gli armadi sorridendo agli ultimi pettegolezzi raccontati dai colleghi. Sciarpa, cappotto, guanti. Passo il badge nel lettore, che ammicca più allegramente (sembra) di quando l'ho passato in entrata. Brucio un semaforo. Howard Phillips chiama. Chiusa la giornata in ufficio, ho fretta di dedicarmi a ciò che (anche se non tiro su una lira) considero il mio vero lavoro. Che, anzi, sto trascurando in questo preciso momento. Quindi a dopo!

ciak

In un blog da queste parti si parlava di sogni. Di quelli ad occhi aperti. Progetti troppo grandi e meravigliosi per essere definiti, appunto, solo progetti. Della loro importanza nella vita di ciascuno di noi, della loro capacità di accecarci o condurci, o entrambe le cose. Di quanto sappiano essere pericolosi. Ovviamente tutto dipende dalle proporzioni, e perdere contatto con la realtà non è mai completamente indolore. Insomma, posso passare giorni e giorni a desiderare (e sognare) di sposare Nicole Kidman, ma la realtà rimarrebbe sempre che la bella Nicole continuerebbe tranquillamente a vivere la sua vita ignorando totalmente la mia esistenza.
Il punto è un altro. Partiamo dal rap.
Sì, il rap. Che personalmente reggo a fatica. E infatti ero intento proprio a pensare, fra me e me, che non reggo il rap, e mi accingevo a lasciare Mtv al rapper vitaminizzato (e faccia da cattivo) di turno, ma venivo congelato da quanto avveniva in seguito sullo schermo. Il rapper di cui sopra invitava una masnada di banbini a cantare con lui il ritornello (e la morale) della sua canzone, ovvero (tempo in 4/4):

I know I can
be what I wanna be.

E questo, signori miei, è il succo dei sogni. Da bersi gelato a garganella. A volte va di traverso, ma quando scende fino in fondo scuote fino ai precordi.

Nel mio piccolo ho preso qualche buona sorsata anch'io, e me ne sono reso conto per davvero solo un paio di estati fa, mettendo piede sul set de La Casa Sfuggita.
Immaginate la scena. Io, mai visto girare nulla più del solito filmino di nozze (o il mio esame di laurea, che mi sono sempre rifiutato di vedere), che entro nell'atrio della grande villa "on location" e trovo dodici metri di binari davanti al portone d'entrata (chiuso e oltre il quale stanno gli attori in attesa del ciak), carrello con sopra regista, telecamera e monitor e spinto da Fabiolino (carrellista), macchina del fumo che fuma, illuminazione ad hoc, microfono su "giraffa" autocostruita, la Roby (segretaria d'edizione) con la lavagnetta del ciak che si fa avanti e grida: "Dieci uno prima... SILEENZIOOOO!!!"
Un attimo di gelo prima che il regista gridi "Azione!"
Non riesco a rimanere fermo dall'eccitazione. Si parte.
Rita (off): "Alex, cosa ci facciamo qui?"
Carrello avanti mentre Alex apre la porta e fa un passo nella stanza.
Alex: "Quello che ci facciamo sempre [alza la compattina davanti al viso e scatta una foto col flash che ci abbaglia per un istante], ricerche. I libri non si scrivono da soli."
Seguo la scena sia dal vivo che sul monitor. Mio Dio... l'ho proprio scritta così! L'ho proprio immaginata così! Per un attimo sono talmente eccitato che dimentico di respirare. Peccato ch'è passata una macchina ed è entrata nel sonoro... da rifare. Sarà, però è bellissimo. E' fresco è delizioso succo dei sogni. A volte un sorso ti cambia la vita. Non ne sono ancora sicuro al 100%, però credo che quella sera sia stato per me un punto di non ritorno. Fatevi trovare qui tra una decina d'anni, e vi dirò com'è andata.