redhead wanted

Ieri sera ho creduto di vedere la donna rossa.
Ero in un ristorante con alcuni amici, seduto ad un tavolo all'aperto. Mentre ci facevano accomodare parlavo con un amico, che m'informava sugli ultimi sviluppi cinematografici, e non prestavo molta attenzione agli avventori già presenti.
Una volta seduto, passando il menù all'amico alla mia sinistra, con la coda dell'occhio ho intravisto una massa di capelli ondulati rossi che adornava una ragazza ad un tavolo dietro di noi. E subito la mia attenzione ha avuto un picco.
Unico problema, rispetto alla mia posizione la ragazza si trovava a ore otto, ed ebbi non poche difficoltà ad osservarla con la discrezione che desideravo. Ma, senza perdermi d'animo, ho iniziato una cordiale discussione con chi mi sedeva accanto, e ho lentamente raccolto informazioni senza bisogno di far altro che spostare leggermente gli occhi alla sinistra del mio interlocutore.
Ma era lei?
Carina era carina. Indossava una camicia blu su dei pantaloni attillati un poco più chiari, che le arrivavano poco sotto il ginocchio, e dei sandalini col tacco basso. Il viso dai lineamenti sottili, il naso appuntito e gli zigomi affilati era intrigante. La carnagione di quel rosa tipico delle rosse che hanno preso un po' di sole. L'aspetto complessivo era piacevole ed elegante. E ciò era accentuato dalla sua postura e dal suo modo pacato di muovere le mani mentre parlava con i suoi commensali.
Ma era lei?
Non lo credo. A parte la difficoltà dovuta al fatto di non aver mai visto bene il volto della donna rossa dei miei sogni, sono vieppiù convinto che, ammesso che esista nella vita reale, se mai mi capitasse d'incontrarla non riuscirei a non riconoscerla. La sua è una presenza troppo forte per essere ignorata. E soprattutto da me che, sebbene in sogno, l'ho avuta per amante.

Come dite?

Okay, okay... domani vado da un analista.

"The Real Folk Blues"

INT. PONTE EQUIPAGGIO DELLA BEBOP - NOTTE
Jet dorme, sdraiato su una branda nella penombra.
Si desta lentamente, percependo qualcosa nell'aria. Si rigira sotto la coperta.
Sull'altro lato della cabina vede Spike, in piedi nel buio intento ad osservarlo in silenzio.
Allarmato, Jet si mette rapidamente seduto.

JET
Spike! Ma tu da dove...?

SPIKE
(sorridendo)
Hai qualcosa da mettere sotto i denti? Sai, ho una fame da lupi.

Stacco su:
IL VENTILATORE A SOFFITTO
che gira mentre si ode lo sfrigolare del cibo sui fornelli.

Stacco su:
UN PIATTO DI UN CIBO NON IDENTIFICATO
Le bacchette cinesi pescano nel piatto un po' di roba verde ed escono di campo.

PP: SPIKE
porta le bacchette in bocca e mastica, un'espressione indecifrabile sul volto.

PP: JET
guarda mangiare l'amico sorridendo, la sigaretta fumante tra le dita.

INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
Spike è seduto al tavolo, dandoci le spalle, Jet invece siede poco lontano, sulla passerella che porta al ponte superiore, rivolto verso di lui.

SPIKE
Come al solito la roba che cucini tu fa veramente schifo...

JET
Da come ti stai ingozzando non si direbbe proprio.

SPIKE
Per riempire uno stomaco vuoto va bene qualsiasi cosa.

PP: JET
Jet sorride. Apre la bocca, come per voler replicare con un'altra battuta, ma poi si trattiene.

SPIKE (off)
Ti racconto una storia.

Jet è visibilmente sorpreso dalle parole di Spike.

Stacco su:
IL PIATTO VUOTO
sul quale Spike appoggia di traverso le bacchette cinesi.

SPIKE (off)
C'era una volta un gatto...

INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
90° dall'inquadratura precedente. Jet di spalle, Spike più in basso, seduto al tavolo, che parla tenendo lo sguardo davanti a sè.

SPIKE
...un po' speciale. Nel corso dei secoli era morto e rinato più di un milione di volte.
Era stato allevato da generazioni di uomini verso cui non aveva provato che indifferenza.

PP: JET
Jet aggrotta la fronte, turbato. Si sporge di lato per spegnere la sigaretta.

SPIKE (off)
Non temeva la morte.

Stacco su:
PORTACENERE
La mano di Jet schiaccia la sigaretta finchè non è spenta.

PP: SPIKE
Continua a parlare e a tenere gli occhi un po' bassi, davanti a sè. Un sorriso stanco gli segna il volto, conferendogli una grande tristezza.

SPIKE
A un certo punto decise di diventare un libero gatto randagio.

Stacco su:
INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
Dall'alto, tra le pale del ventilatore che girano pigramente nell'aria, vediamo i due amici sempre seduti immobili ai loro posti. Spike parla, Jet ascolta.

SPIKE
Incontrò una bella gatta bianca, e vissero insieme felici e contenti. Passarono gli anni, e la sua candida compagna, ormai vecchia, si spense. Lui la pianse per più di un milione di volte, poi la seppellì... non rinacque più.

PP: JET
Jet sorride, un po' imbarazzato.

JET
E' una storia molto bella.

SPIKE (off)
La odio con tutto il cuore.

Jet, stupito, solleva lo sguardo sull'amico.

PP: SPIKE
Spike sorride, guardando Jet dal basso verso l'alto

SPIKE
I gatti sono una cosa che non sopporto.

PP: JET
Anche sul volo di Jet s'allarga un sorriso.

JET
Oltre ai cani e alle donne!

INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
I due amici ridono irrefrenabilmente per qualche istante.
Sempre ridendo, Spike si alza dal tavolo e s'incammina verso la passerella

JET
Senti Spike...

Spike si ferma, dandoci le spalle.

SPIKE
Si?

JET
Ti posso chiedere solo una cosa?

SPIKE
Che cosa?

JET
E'... per quella donna?

PP: SPIKE (di schiena)
Dopo un attimo di esitazione, Spike gira un poco la testa verso l'amico per rispondere, guardandolo di sbieco.

SPIKE
Non c'è nulla che si possa fare per una donna morta.

PP: JET
Jet sospira, affranto, passando la mano in testa, sulla pelata, mentre si sentono i passi di Spike salire la passerella e allontanarsi.

Stacco su:
INT./EST. BOCCAPORTO
Sempre dandoci la schiena, Spike cammina verso il boccaporto aperto, oltre il quale si vede il corridoio della nave attraversato dalle tubature.
Quando è sulla porta, una mano spunta da oltre la paratia, puntandogli una pistola alla testa.

FAYE (off)
(perentoria, minacciosa)
Dove vai?

Spike si volta verso la pistola.

Stacco su:

PP: FAYE
Tiene la pistola con decisione puntata verso di noi, uno sguardo deciso, severo, nei begli occhi scuri.

FAYE
Ma soprattutto, perchè?

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Faye ha il braccio teso, inquadrando Spike, tranquillo di fronte a lei con le mani in tasca, nel mirino dell'automatica.
Dopo un istante, Faye abbassa l'arma lungo il fianco. Tutto il suo corpo assume una postura che le dà un'aria disperata.

FAYE
(animandosi)
Una volta mi dicesti che il passato non era poi così importante.
Belle parole per uno che non riesce a liberarsene!!

Spike esita un istante, poi le si avvicina. Avvicina il volto a quello di lei, che presa di sprovvista indietreggia un poco e lo guada con stupore.

SPIKE
Guardami gli occhi...

Stacco su:
Dettaglio: GLI OCCHI DI SPIKE

SPIKE
Il destro è artificiale, quello vero l'ho perso in un incidente.

Si può ben distinguere la differenza di colore tra i suoi occhi.

SPIKE
Da allora con l'occhio sinistro registro il presente, mentre col destro ricordo il passato.
Mi ha insegnato che non sempre ciò che è visibile corrisponde alla realtà.

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Spike e Faye si fronteggiano.

-FAYE
Si può sapere che ti prende? Tu che non hai mai parlato di te stesso ti metti a fare certi discorsi proprio adesso!

SPIKE
Volevo continuare a vivere un sogno dal quale non svegliarmi mai.
(si interrompe un attimo e sorride, quasi divertito di se stesso)
Ma poi all'improvviso mi sono svegliato.

Spike passa accanto a Faye, dirigendosi verso la fine del corridoio immersa nel buio.
Faye si volta verso la paratia, prima di parlare.

FAYE
Io... ho riacquistato la memoria.

Spike si ferma, ma senza voltarsi verso di lei.

Stacco su:
I PIEDI DI FAYE
calzati negli stivaletti bianchi, rivolti verso la paratia.

FAYE
Ma... non ho trovato niente.

Stacco su:
LA MANO DI FAYE
rilassata lungo il suo fianco, che si chiude in un pugno disperato mentre parla.

FAYE
Non ho una casa dove riposare. Nessuno ad aspettarmi.

PP: FAYE
di profilo, attraverso i lisci capelli della ragazza vediamo la sua bocca che parla con amarezza.

FAYE
Ormai l'unica casa che ho è questa!

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Spike non s'è mosso. Faye è sempre rivolta verso la paratia.

FAYE
Spike... non andare... perchè vai?

INT. CORRIDOIO - DALL'ALTO
Finalmente Faye si volta verso Spike, che però continua a darle la schiena.

FAYE
Perchè vuoi andare se sai che morirai?

Spike sembra pensarci su, prima di rispondere.

SPIKE
Io non vado a morire. Ma solo a provare a me stesso se sono realmente vivo oppure no.

Stacco su:
SPIKE
che riprende a camminare verso di noi, verso il buio alla fine del corridoio.

Da sopra la sua spalla vediamo Faye che vince lo stupore, che solleva la pistola, dapprima puntandola alla schiena di Spike, poi verso il soffitto.
Faye stringe gli occhi e spara un colpo, che risuona forte nel corridoio.

CONTROCAMPO
Spike continua a camminare verso la fine del corridoio dandoci la schiena, mentre si sente un altro colpo di pistola sparato da Faye.

Stacco su:
LA PISTOLA
impugnata dalla piccola mano della ragazza, che fa fuoco ancora ed ancora.

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Spike è ormai in fondo al corridoio.
Faye non spara più, e anche se tiene sempre la pistola alzata all'improvviso è come se il suo corpo s'afflosciasse per la disperazione.

Stacco su:
GLI OCCHI DI FAYE
lucidi di pianto.

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da "Cowboy Bebop"
- Session #26: "The Real Folk Blues" (part II)

black nightmare

Uno scrittore americano dedito prevalentemente alla sf mi colpì anni fa con un racconto intitolato "I colori dell'incubo". Tanto da farmi scrivere una risibile poesia dallo stesso titolo. Comunque il racconto era una serie di frammenti estremamente drammatici (non di fantascienza), dove la qualità dell'elemento disturbante illuminava ogni episodio di uno specifico colore. Il più angosciante penso che fosse l'incubo in grigio. In esso si seguiva un giovane uomo i cui propositi erano prendere in mano la propria vita. Era profondamente innamorato di una bellissima donna, e in cuor suo sapeva di essere ricambiato. Nella sua mente prendevano forma progetti per la sua vita felice, per la sua famiglia felice. Si percepiva l'immane forza delle sue aspettative, della sua voglia di vivere, di amare. Davanti al portone della casa del suo amore, un bel mazzo di fiori in una mano, bussava al colmo dell'eccitazione. Ma quando la porta si apriva, si trovava di fronte una bambina che dapprincipio non riconosceva e che, dopo uno scambio di battute confuse, esclamava verso il cuore della casa: "Mamma! C'è il nonno! Ha avuto un altro dei suoi attacchi!" E all'improvviso gli tornava in mente il necessario per capire. Riconosceva il suo corpo affranto dalla vecchiaia, il grigiore della sua pelle e quello dei suoi giorni a cui era negato il conforto dei ricordi. Aveva già vissuto, e non lo rammentava più.

Dico questo a causa di un breve black-out accaduto la notte scorsa, che mi ha colto impreparato durante la traversata del mio smisurato corridoio. A tentoni, ho raggiunto la camera da letto e il letto, sdraiandomi in attesa che tornasse la luce. Cosa che avvenne nell'arco di pochi minuti. Ma in quei pochi minuti ho rivissuto il mio incubo in nero.

Maggio dello scorso anno. Sento, dopo un lungo e comprensibile silenzio, La Treccia al telefono. Lotta per superare la fine della sua storia, anche la sua voce sembra piegata dalla sofferenza. Decidiamo di uscire a mangiare un boccone, e già nel proporre l'idea provo un'anteprima del senso d'impotenza che mi prenderà allo stomaco durante la cena. Però va fatto. Non mi tiro indietro, nonostante ormai io sia più che certo che tra breve, tra molto breve (e precisamente una settimana più tardi) anch'io avrò il mio bel dafare per rimuovere le macerie della mia vita sentimentale. Non mi tiro indietro, gli amici ci sono per questo.
Fa caldo per essere i primi di maggio. La raggiungo in strada davanti a casa mia, notando subito il suo pallore, il suo volto eroso dal pianto come una vallata carsica. Bacio, bacio. Per sdrammatizzare un po' azzardo una battuta sulla sua guida. Accenno alla sua auto, parcheggiata col muso nella direzione opposta a quella prevista, e dico: "stai migliorando! accidenti! in retromarcia fin da casa tua!" Non ottengo che un mezzo sorriso, e il cuore mi sprofonda ancor più nel petto. Sarà una lunga serata.
Prendiamo la mia auto, ma facciamo poca strada. Decidiamo di sederci ai tavoli dell'estivo di un locale su Viale Cavour. Non più di trecento metri da casa mia.
Si parla d'inezie per qualche minuto, poi, in quel suo modo così controllato, discreto, così deliberatamente trattenuto che farebbe infuriare chiunque non la conoscesse da anni, inizia a parlare di sè. D'improvviso, e nonostante la versione edulcorata, mi trovo a combattere contro la furia di un duplice maelstrom, e le sono grato per esserci andata piano, anche se non so se consapevolmente o meno. L'ascolto ma non ho consigli. Non ne ho per me stesso. La lascio parlare, e alla fine dice anche le cose che dovrei dire io. Fortunato bastardo.
Inevitabilmente mi trovo a dover parlare di me. Non vorrei, e per due buone ragioni. La prima è che sono di fatto ancora insieme alla cantantessa, e mi secca far la figura di chi si lamenta senza ragione. La seconda, perchè nonostante il disastro incombente e ormai inevitabile non ho alcuna voglia di arrendermi. Mi limito quindi ad un quadro prudentemente pessimista e la cosa sembra disturbarla. M'inonda di considerazioni sulla logica femminile, sull'emotività, sulla sessualità, di consigli che non capisce che non potrei mettere in pratica nemmeno se lo volessi, tanto sono estranei dalla realtà della mia relazione. Ha del tragicomico che questa ragazza così povera d'esperienza si senta di tenere lezione ad un veterano della catastrofe sentimentale solo perchè guarda sempre LoveLine su Mtv. Alcune delle cose che dice mi feriscono, per la loro inusitata cecità, ma comprendo anche che per lei è un tentativo di rivincita. Vorrebbe con tutte le sue forze che almeno questo rapporto sopravvivesse.
Docile, l'ascolto dosando l'attenzione nei miei occhi, annuisco con tempestività, mentre il mio cuore s'è ritirato in un luogo lontano e silenzioso, a mala pena raggiungibile anche da me stesso. Finchè, ai margini della mia coscienza, percepisco alcune parole ed è come sbattere il muso contro un vetro. Ritrovo la mia attenzione.
"...non devi mai dirle che hai paura di perderla!"
Si ferma e mi guarda, intuendo qualcosa dal mio viso. E io intanto vengo risucchiato da una mattina assolata, la luce che entra obliquamente nella stanza da letto dalla parete a vetro, la cantantessa e io, sotto le coperte, che immergiamo le mani ciascuno nelle lacrime dell'altro. E io che dico esattamente quelle parole. Esattamente quelle.
Leggo la comprensione negli occhi della Treccia, che si fanno d'un tratto gelidi e duri. Che sembrano dire, anzi, sembrano gridarmi in faccia: "Cos'hai fatto, maledetto stolto?! Hai rovinato tutto! Tutto!!"
Ci salutiamo davanti a casa mia. La guardo faticare col volante e poi mettersi bene in carreggiata. Ho una sete maledetta a causa dei pop-corn che ho mangiucchiato durante tutta la sera. Apro il frigo in cerca di un succo di frutta e improvvisamente l'oscurità cade su di me. Chiudo la porta del frigo e raggiungo a tentoni il balcone. E' buio. Tutto il quartiere è avvolto da un'oscurità primordiale e spaventosa. M'appoggio alla ringhiera, svuotato di me stesso. Il buio, il nero, il vuoto. Il mio destino.
Pausa pranzo al "Ciao" dell'Ipercoop.
Se c'è un Disegno Divino mi chiedo proprio quale sia. Soprattutto osservando la collega che fagocita il suo pranzo composto da pasta al forno, arrosto e patatine + verdure pastellate, fetta d'anguria e tiramisù. Oggi c'è andata leggera. La questione del Disegno Divino risulta evidente considerando il fatto che pesa quaranta chili (con tendenza al ribasso) nonostante la quantità di cibo che ingurgita, e io prendo peso al solo annusare dei profumi della cucina.
Dunque sono lì, che rumino la mia insalatina con i pomodorini, la rucolina, il radicchino nonchè vari altri vezzeggiativi, quando lei afforchetta qualcosa nel piatto, spalanca le fauci, e ve la getta dentro con nonchalance, emettendo, tanto per farsi ben volere, un mormorio d'apprezzamento tipo: "Mmmmmmmmmmmmhhmmm!!!!"
Dopo un attimo, però, il fragore assordande di tutta la fibra che sto triturando coi denti è coperto da un suono bizzarro, che non riconosco.
Alzo gli occhi. La collega sta soffocando.
"E' la nemesi" penso, dissimulando un sorriso in una smorfia. Ma nello stesso istante sono mezzo alzato dalla sedia, pronto per correre al suo soccorso.
Lei fa un gesto nervoso e rigido con la mano, che però potrebbe interpretarsi in due modi. Potrebbe voler dire: "stai calmo e seduto, va tutto bene, m'arrangio". Oppure potrebbe voler dire: "vuoi muoverti a darmi una pacca sulla schiena, CAZZO!!!"
Decido di agire comunque, non tanto per la morbida tinta bordeaux assunta dalla sua faccia in sè, che non è male. Ma, caspita!, fa a pugni con il colore della camicetta!
Non faccio in tempo. Prima di poterla, finalmente e legittimamente, picchiare, un inaspettanto e provvidenziale colpo di tosse le libera la trachea.
Riappoggio le chiappe alla sedia e la osservo in silenzio che respira profondamente con gli occhi chiusi, allontanando il panico.
Penso: "sarà sconvolta..."
Lei riapre gli occhi, sorride, afforchetta un altro qualcosa nel suo piatto e se lo spara in gola mugolando di piacere. "Che fameeee...!" aggiunge.
Insomma. Se c'è un Disegno Divino mi chiedo proprio quale sia.

empty house

Diana Krall mentre ceno.
La sua voce vellutata canta parole che mi danno un improvviso fastidio. "Cry me a river".
Cerco con gli occhi il telecomando dello stereo. Alla fine mi alzo e premo il dito sul pulsante On/Off quasi con rabbia. Cala il silenzio come una bastonata.
Basta.
Di nuovo seduto davanti al piatto, con la coda dell'occhio scorgo il telecomando fare capolino da sotto la fruttiera, che è pure vuota. Lo prendo in mano, tenendo ad un tempo l'angoscia per le corna. Che spinge, spinge. Mi sà che entro sera mi prenderò una bella incornata.
Cosa vuol dire tutto questo?
Ho lasciato l'altra casa ed ora sono in questa. E' più grande, più spaziosa, più luminosa. Ogni volta che mi dimentico qualcosa in una stanza mi tocca fare sto smisurato corridoio, che prima o poi mi comprerò dei pattini.

(pattini... trentadue anni fa mio padre solleva una scatola verde davanti ai miei occhi, nella medesima stanza dove mi trovo ora, a scrivere sul portatile mac del mio sconforto. Pattini. Mi dice che me li ha portati in dono la sorellina appena nata. Ottima mossa, papà.)

Farò causa ai traslocatori. Manca uno scatolone all'appello. Hanno dimenticato i miei sogni nel mio vecchio appartamento.

Il vuoto. Il vuoto.

gettin' in

L'accesso alla mia casina nuova (nuova perchè ci sto da poco, non certo perchè fresca di cantiere!) non è dei più facili. Di solito saluto i miei visitatori con un cordiale "benvenuti ad Alcatraz!" per via delle inferriate. Se non altro le ho fatte dipingere di un bel rosso vivace che, bisogna ammetterlo, assieme al verde della ringhiera del balcone e al bianco degli infissi, ha dato un involontario ma allegro tocco patriottico allo stabile (si preannunciano grane in condominio...). Comunque non dirò che è impenetrabile per motivi scaramantici. E le intaccature allo spigolo della porta d'entrata, sicure testimoniante di passati tentativi d'effrazione, mi servono da monito a non abbassare la guardia.

Dunque, da via Palestro si accede da una bella porta a vetri scuri posta tra il macellaio e il fruttivendolo. Ma di solito chi mi viene a trovare non aspetta di sentirmi raccontare tutta la faccenda, e perde un buon quarto d'ora facendosi a piedi in andata e ritorno i quattro piani dell'edificio principale, provando ogni porta e strabuzzando gli occhi su tutti i campanelli, prima di rinunciare, tornare in strada, suonare di nuovo, e gracchiare nel citofono: "ma dove c(beep!)o stai?".
E io: "attraversa il cortile, pollo!"

Si attraversa, ridunque, il cortile e, in fondo a sinistra, ci si trova davanti ad un nuovo portoncino, che il più delle volte avrò già provveduto ad aprire con l'apposito tiro. Sull'interno del portoncino si trova un cartello, assolutamente menzognero, che recita:
"Si prega di non sbattere. La porta si chiude da sè".
Potremmo definire l'apparato adibito alla chiusura del portoncino: "ad pompam".

Queste le principali reazioni al cartello bugiardo.

1) il coscienzioso:
mi raggiunge sul pianerottolo e dice: "Lo sai che il portoncino di sotto non si chiude da sè?"

2) l'irritato:
mi raggiunge sul pianerottolo ed esclama: "Quel c(beep!)o di portoncino di sotto non si chiude!"

3) il distratto:
mi raggiunge sul pianerottolo e gli chiedo: "Hai chiuso il portoncino di sotto?"
E lui: "Portoncino?"

4) mio padre:
SSSSLLAAAAAMMMMM!!!!!! (con vibrazione risonante nell'edificio dalle fondamenta al tetto)
Io: "Papà, sei sicuro di aver chiuso bene?"

4) l'ingegnere:
l'attendo invano per diversi minuti prima di sporgermi dal pianerottolo e vederlo scrutare accigliato a braccia conserte il portoncino semiaperto ma inspiegabilmente inerte. Continua a scrutare accigliato, probabilmente chiedendosi se è rotto o se è semplicemente molto moooolto lento, finchè non attiro la sua attenzione con: "Hei! Mica si chiude! Datti una mossa!"

Bè, poi si è arrivati.

*

...sono così stanco di non stare bene.

the rose + the picture

Con un dardo
o la spina d'una rosa
appuntata al cielo
come una foto
al muro


via sms


condomflag

Un po' più rincoglionito del solito, stamane esco di casa facendo roteare le chiavi della macchina attorno all'indice, infilato nel portachiavi. Raggiungo il mezzo, lo apro, mi siedo alla guida e avvio il motore. Pochi secondi per scegliere la colonna sonora del tragitto (che alla fine risulta essere Cowboy Bebop OST di Yoko Kanno), innesto la marcia e vado, mentre il mio tecnologicissimo vetro elettrico scompare nella portiera. L'aria m'accarezza il viso. Canticchio sul cd un pezzo dolce e swingatissimo. "Goodbye, so long, adieu..."
Sostando al primo semaforo, tre suore mi passano accanto lanciandomi severe occhiate di disapprovazione. Al verde riparto un po' perplesso. Penso: che non gli piaccia il jazz?

E' quando m'accorgo del preservativo svolazzante agganciato al tergicristallo.

farewell my lovely

Niente, non riesco a dormire.
Mi rivolto nelle lenzuola come una popolazione oppressa.
Cerco evasione nelle pagine di "Addio mia amata" di R. Chandler. Un grande.
Riflessione su Phil Marlowe: ogni sua storia di cuore non è che l'eco di un'enorme passione, di un gigantesco amore che non viene consumato. Mai.

E per un attimo mi sento meglio. Solo per un attimo, però.

Poi torno a letto.

rude awakenings

Nuovo sogno. Ma purtroppo la donna rossa questa volta non c'entra. Chissà dov'è, cosa sta facendo mentre la penso e, beh sì, la desidero. E' un po' alienante scoprirsi a fissare il vuoto pensando a qualcuno che probablimente non esiste.
Di una vividezza straordinaria, ma a cui sono abituato, il nuovo sogno s'è confuso con quello stato di veglia incosciente che è preludio del vero risveglio, rendendo il tutto ancora più incredibilmente reale.

Dunque apro gli occhi. Il sole filtra dalla finestra tagliando la penombra come un coltello. E' domenica mattina presto, lo capisco dalla qualità della luce, ma non mi secca essermi svegliato perchè posso richiudere gli occhi e abbandonarmi all'indolenza. Prima di farlo mi stiro lungamente, assaporando il tepore delle lenzuola, la morbidezza dei cuscini. Mi giro sul fianco destro e con gli occhi socchiusi e assonnati vedo P. che entra in camera da letto con passo silenzioso e un sorriso solare sulle labbra.
Sorpreso, torno a mettermi supino e la guardo. La luce dell'alba la illumina mentre si sveste, e mentre si sveste, riponendo con cura i vestiti, mi parla tranquilla e serena delle ultime cose che ha scritto, di come sono piaciute, di come vorrebbe migliorarle. Tanto che, dopo un attimo, il fatto che si trovi nella mia camera da letto mi pare come la cosa più naturale del mondo. Seduta sul bordo del lettone si sfila i pantaloni e continua a parlarmi, e sempre parlando li piega, li appoggia sulla cassettiera e infine si volta a sorridermi. Poi tace. Ora ha addosso solo una camicia bianca che la copre quasi fino alle ginocchia. Gira attorno a letto, s'insinua felina sotto le lenzuola e mi si fa vicina. Sento i suoi piedi che si avvolgono ai miei.
Mi giro verso di lei, avvicinandomi al suo viso. Allungo la mano per una carezza ma all'improvviso lei è come insensibile. I suoi occhi dilatati guardano avanti a lei, il resto del volto è una maschera indecifrabile e inespressiva.
"chi...?" dice.



Per un attimo non capisco, poi sento tutto il corpo che mi s'irrigidisce, il freddo che mi travolge, i capelli che mi si raddrizzano sulla nuca. Seguo il suo sguardo fino ai piedi del letto. Là c'è una ragazzina. Avrà dieci, dodici anni, ha capelli castani sciolti sulle spalle, occhi grandi, acquosi, ha addosso una camiciola da notte azzurra e ci guarda con tristezza infinita.
"chi...?" dice ancora P. e sento tutto il terrore nella sua voce, come lo sentirei nella mia se riuscissi a dire anche una sola parola. La sua mano si stringe alla mia al punto di dolere.
Chi? O cosa? P. ed io sappiamo bene che la bambina è un fantasma. Che vuole qualcosa da noi.
Vorrei agire in qualsiasi maniera. P. però non mi lascia andare, non sò se per il timore che mi possa accadere qualcosa o se semplicemente non vuole rinunciare a quel poco di sicurezza che il mio contatto le regala. Si stringe a me, sento i suoi piedi che scalciano in preda al panico, come se stesse nuotando disperatamente per tenersi a galla. Alla fine riesco a divincolarmi dalla sua presa, e lei inorridisce vedendimi uscire da sotto le coperte, ultima difesa.
Rimanendo sul letto mi avvicino alla bambina col cuore martellante. Sento P. che trattiene il fiato alle mie spalle. Lo spettro muove le labbra come se stesse parlando, ma non odo alcun suono, alcuna parola. Guardo quegli occhi profondi, profondamente tristi e all'improvviso mi accorgo che le mie gambe stanno spingendo, che sto compiendo un balzo in avanti, che travolgerò chiunque o qualsiasi cosa si strovi di fronte a me.
E lo faccio. I lineamenti della bambina s'avvicinano rapidissimamente e poi scompaiono. Sento un freddo mortale che s'impossessa di me, e un urlo agghiacciante nell'aria mentre ruzzolo sul pavimento.
E mi sveglio. Di soprassalto. Scatto seduto sul letto, gli occhi che cercano nella stanza, le vene che pulsano sulle tempie. Il sole filtra dalla finestra tagliando la penombra come un coltello. Dèja-vu. Aspetto per qualche minuto, respirando affannosamente. P. non arriva. Vado a prepararmi la colazione.

Dove sei, donna rossa?...

in between days

Sole tra le nubi
vento tra le foglie
sospiro tra i pensieri

dreams of a redhead

La donna rossa è comparsa di nuovo nei miei sogni.
Non sò chi sia.
La prima volta che la sognai avevo vent'anni, e al mio risveglio dovetti fare doccia e bucato. Non ricordo bene i dettagli del sogno, solo la sua carica erotico esplosiva, i lunghi capelli mossi rosso carota della mia amante onirica, la sua pelle delicata e diafana, le sue dita minute sul mio petto. Ma non il volto. Quello non sopravvisse al risveglio.
La seconda volta invece ero a due giorni dalla discussione della tesi. Nel sogno la riconobbi tra la folla di un locale alla moda, dalla quale la estrassi prendendola per mano conducendola poi da qualche altra parte non bene definita. Questa volta l'erotismo fu soppiantato da una singolare intimità. Forse ricordo un bacio, all'ombra di un porticato, e di sicuro una felicità che può trovarsi solo nei sogni. Nient'altro.
Può darsi ch'io l'abbia sognata altre volte, non so.
La notte scorsa è tornata.



Nel sogno mi trovo in un qualche locale nel bel mezzo di una ressa rumorosa, una selva di bicchieri multicolori. L'ambiente è un po' rustico, con vecchi mattoni a vista, mobili in noce scuro d'arte povera, tegami di rame appesi in vece di quadri. D'un tratto sento una voce familiare chiamarmi. Alzo gli occhi e mi rendo conto di un soppalco stretto, una specie di ballatoio, che corre lungo la parete più lunga della stanza. R***, una mia cara amica, in un abito da sera che non credo possegga veramente, si sporge dalla ringhiera agitando un braccio.
"Ehiiiiiii!" mi chiama con la sua consueta allegria.
Agito il braccio anch'io per farle vedere che l'ho vista.
"Vieni su!" continua. "Dài vieni! C'è una persona che devi conoscere!!"
Rimango un attimo interdetto. Una persona? Provo l'impulso di sgattaiolarmene via alla chetichella, ma svanisce subito. Cerco il modo di raggiungere il soppalco. Stranamente, non vedo scale. Rimango pietrificato quando scopro che per salire c'è una specie di percoso in arrampicata, con appigli metallici e incavi nel muro. Ma sono matti?! Per scrupolo provo a salire, ed è effettivamente difficile come sembra. Dopo un po' diventa una questione d'orgoglio. In più sto bloccando la strada agli altri, e la cosa m'infastidisce e m'imbarazza. Per giungere in cima bisogna passare addirittura attraverso una fessura orrizzontale, quasi un passaggio in grotta da speleologo. Ironia della sorte è ciò che mi permette di tirare il fiato e di issarmi finalmente sul soppalco.
I miei passi risuonano sulle assi di legno un po' imbarcate del pavimento. L'ambiente è bello stretto. Ci sono dei divani contro la parete, e per passare bisogna farsi largo tra le gambe degli avventori seduti. Tra schiene e teste, nel salottino in fondo intravedo R***. La raggiungo. Qui, non so come, hanno fatto stare due divani uno di fronte all'altro con un tavolino in mezzo. Mi siedo mentre R*** si alza. Mi bacia sulla guancia e dice che torna subito e di presentarmi. Alzo gli occhi e lei è lì, seduta sul divano di fronte al mio.
La donna rossa.
Si sporge verso di me appoggiandosi al tavolino. Io faccio altrettanto finchè i nostri volti quasi si sfiorano. Ci guardiamo, vicinissimi, tanto chè posso mettere a fuoco i dettagli ma il viso nella sua interezza è fuori dalla mia portata. La sua carnagione eburnea è ricoperta di minutissime e deliziose efelidi. I suoi occhi sono di un azzurro limpido e brillante. Un ciuffo dei suoi splendidi capelli rossi le cade sul viso, lei lo allontana passandolo con noncuranza dietro l'orecchio, ma quello torna dov'era e lei decide d'ignorarlo. Questo mi permette di vedere che le sue sopracciglia sono del medesimo colore dei capelli. Addirittura anche le sue ciglia lo sono, sebbene un poco più scure. Le sue labbra, invece, sono d'un rosso molto più acceso anche se non sembra portare rossetto. Mi sento tremare dalla testa ai piedi quando lei mi accarezza la guancia con la sua, e inizia ad avanzare carponi sul tavolino verso di me. Io indietreggio mentre lei si avvicina. Le sue mani lasciano l'appoggio del tavolo e trovano quello delle mie gambe. Lo schienale del divano m'impedisce d'indietreggiare oltre. Sento le sue labbra sul mio collo. E tutto si dissolve nel buio.
E piove.
Corriamo nella notte piovosa tenendoci per mano. Lei ride divertita, trascinandomi tra le piante di un grande giardino, al centro del quale si scorgono le finestre illuminate di una casa. Ride, mentre i capelli fradici le aderiscono alla fronte, la camicia le aderisce alla pelle. Oltre a quella indossa shorts e sandali con tacchi altissimi. Parole nella mia mente. "...e piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggeri, sui freschi pensieri che l'anima schiude novella, sulla favola bella che ieri m'illuse e oggi t'illude, Ermione."
Mi conduce al portone di casa, che apre con una semplice spinta. Entriamo in una sala buia, l'attraversiamo. Attraversiamo tutta la casa e torniamo ad uscire dalla porta posteriore. Un'altra corsa sotto l'acqua scrosciante. Una dependance ad un piano, semisepolta dalla vegetazione, appare improvvisamente davanti a noi. Ci fermiamo davanti alla porta e lei mi guarda sorridendo, come in attesa. E' bagnata come un pulcino. E' assolutamente adorabile.
"Allora?" dice ridendo. Io la guardo, è l'unica cosa che posso fare.
"Le chiavi!" esclama, giocando ad essere spazientita. Continuo a non capire.
"Avanti!!" Ride e cerca d'infilarmi la mano nella tasca dei jeans. Io la precedo e con mia sorpresa trovo un anello con due chiavi che non ho mai visto.
"Dài, dài!" Inserisco la prima chiave e la giro. La porta si apre. Lei mi prende per la camicia e mi tira dentro ridendo come una bambina.
Camminiamo su una moquette così spessa che sembra di avanzare su uno strato di gommapiuma. I piedi affondano nel pavimento che presenta anche una serie di dossi e avvallamenti. Il soffitto è bassissimo. Allungando un braccio lo tocco con facilità. Molte candele illuminano le stanze in cui mi conduce la ragazza. Sono tutte disordinatissime, con oggetti e indumenti sparsi qua e là su mobili e sul singolare pavimento ondulato, ma è un disordine che non sembra infastidirmi. Cerco di riconoscere alcuni degli oggetti sparsi. Un foulard, una bottiglietta vuota di cristallo con un vaporizzatore color ocra, un libro, un trenino di legno con tre vagoni passeggeri, locomotiva e tender, un pupazzo di gomma a forma di rana.
"Questo è il mio regno," dice lei sorridendo. "Qui posso fare tutto ciò che voglio." Ha recuperato una salvietta e stà provando ad asciugarsi i capelli. "Fa come se fossi a casa tua," aggiunge. Io ho ancora in mano le chiavi. Mi siedo sul grande letto matrimoniale coperto da magliette, riviste e piccoli peluche, e la guardo mentre si asciuga, si sfila la camicetta bagnata, scalcia via le scarpe facendole rotolare in un mucchio in un angolo della stanza.
E mi sveglio. Maledizione, mi sveglio.

E' tutto il giorno che provo questa sensazione di esasperante frustrazione. Erano anni che non la vedevo. S'è dissolta così, davanti ai miei occhi, mentre invece prendevano forma i raggi di sole che filtravano dalle tapparelle della mia camera da letto.

Non è giusto. Ormai non trovo pace nemmeno nei sogni.

eightball

I° giugno 1993. Houston, Tx.

La sera prima io, Magi e Marco, dopo esserci fatti del male con una fritturina di pesce sintetico al Red Lobster, raggiungiamo un paio di amici in un postaccio a Montrose per una partita a biliardo. Per la cronaca, Montrose è il quartiere gay di Houston, sul quale ti viene fatto un lavaggio con ammollo e centrifuga al cervello perchè te ne tenga il più lontano possibile o adotti le opportune precauzioni, tipo avvolgerti tutto col cellophane a mo' di total condom. Raccontare che sei stato a Montrose suscita di solito preoccupati risolini anche dopo che hai dato prova di rigorosa eterosessualità.

Battuta classica da italiano in trasferta in USA: ti sei "fatto" nuovi amici?

Sarà, ma il mitico Fred pur abitando a Montrose s'è "fatto" una collezione di belle figliole da far invidia a qualsivoglia latin-lover mediterraneo in trasferta, e a quanto mi risulta il respirare la stessa aria che respirano i gay (tipo "fumo passivo") non gli ha causato nessuna controindicazione. Comunque -- a scanso di equivoci -- io, Magi & C. a Montrose andavamo a giocarci a biliardo, e per essere dove si trovava il locale conteneva una singolare quantità di red-necks, la maggior parte dei quali, da come si piegava sui biliardi, non sembrava temere la "minaccia" gay.

Quella era la sera del 31 maggio, e io non imbucavo neanche a metterla dentro a mano. Persi ogni partita che giocai e pagai birre ai vincitori senza fare una grinza. Provavo un'inquietudine singolare, ineffabile. Ogni tanto lanciavo un'occhiata in direzione della porta, come se mi aspettassi di veder comparire qualcuno di conosciuto. Il Juke-box si lamentava con la voce di Garth Brooks. Il testo era la classica melassa country di lei tanto bella che fa sognare lui, ma all'improvviso se ne va inspiegabilmente con un agente immobiliare. Oh-Yeah. Mi avvicinai all'oggetto luccicante (il secondo juke-box a cd che avessi mai visto -- il primo stava al "Live Bait" ed era molto meglio fornito), ma l'unica canzone che conoscevo era "Walking On Sunshine" di Katrina & The Waves, e se avessi programmato quel pezzo credo che ora non sarei qui a parlarne. Così lasciai perdere e constatai che in Texas, sì, ascoltano effettivamente Dolly Parton (o meglio lo facevano 11 anni fa, sono un po' disinformato per ciò che riguarda il nuovo millennio).

A casa faticai a prendere sonno. Era lunedì notte. Pensavo al maledetto biliardo, alle maledette leggi della fisica, e al motivo per cui non riuscivo a coniugare il primo con le seconde. E pensavo all'ennesima seduta di dialisi che mi aspettava il giorno dopo. Ma che poi non feci mai.

I° giugno 1993. Mi telefonò Dana alle cinque di mattina. A mezzogiorno ero in sala operatoria.