slogan

Ancora Chopin...
Sbatto la testa contro tutti quei pallini neri sul pentagramma, e ne cavo fuori qualcosa che andrebbe bene come colonna sonora di un cartone animato giapponese.
Nel frattempo fuori è stata una bella giornata e il mio inutilometro è finito fuori scala.
Le foto che non saltano fuori quando svuoti i cartoni dopo un trasloco. E gli appunti, le lettere, i sogni, finiti maldestramente schiacciati tra i libri e tutti sgualciti. Il fruscìo di tutte queste carte in attesa di giudizio (sistemazione o macero) è come uno slogan pubblicitario:

"Questo è il primo giorno del resto della tua vita!"

...davvero? Suona così minaccioso.

our town

Ferrara è la città dei giardini rinchiusi.
I palazzi dalle facciate signorili, elegantemente ristrutturate e a norma di portafoglio, tengono celati verdi tesori tra mura possessive. Chiostri, giardini, parchi e corti. Tutto tenuto lontano dagli occhi e dal cuore. Sembra un'estensione architettonica della natura dei suoi cittadini. Noi ferraresi non siamo, di norma, gente aperta e generosa, così come siamo raccolti in caste assurde e incomunicabili, così presuntuosi da pensare di essere il meglio e così provinciali da disprezzarlo.

I nostri cuori, come i nostri giardini, sono protetti da robuste mura di cinta.
Tetti, abeti
e lune di giorno
cammino
cammino e rinuncio
al ritorno.


inedito
da "Open Air 17"

fil di ferro

L'osservare la fiamma di una candela ha dischiuso in me una scatola di ricordi di cui avevo perso traccia.
Io bambino in preda al delirio su di un letto basso, e un comodino sul quale sfarvalla la luce o di una candela o di un'abat-jour senza paralume con una lampadina da pochi watt. La sensazione di separazione dal corpo, di affondare nella melma putrida dell'incoscienza, da cui riemergere per i pochi istanti in cui le pezzuoline fredde mi vengono appoggiate sulla fronte. E il buio tutt'attorno, vivo di ombre gigantesche e spaventose come la solitudine, in cui aleggiano le voci perdute, lontane, spente, dei miei genitori.

Mi sono piegato così spesso, da una parte poi nel senso opposto, che non mi sorprenderebbe se mi spezzassi come del fil di ferro.

wha...?

Naaaaaa! Non è possibile!!
Chiamate un esorcista!
Dite a Peter Cushing di venire col mazzuolo e un paletto di legno ben appuntito!
Dite a David Linch che abbiamo un soggetto per il suo prossimo delirio!
Tanita Tikaram?!?!

(ho davvero comperato 'stò ciddì? e quando?)

un bel gattino

Cena divertente con amici.
Che bello lasciarsi andare e sparare cazzate a raffica senza pensare.

I miei sono a farsi un weekend a Montecatini, quindi l'incombenza di cibare i famelici felini è mia. Mentre cammino a passo svelto con la coda dell'occhio m'accorgo di un'improbabilità fisica. Come un buco nero tascabile, dell'acqua che cade verso l'alto, o un certo mio conoscente che salda i suoi debiti. Mi fermo per investigare. E osservo lo strano essere che barcolla nella mia direzione, gli occhi fissi nei miei (a quella distanza li vedo). Quando passa sotto il cono di luce di un lampione mi rendo conto che è:

"Un gatto?????"

L'animale, delle dimensioni di un pony, mi si avvicina e strusciandosi contro le mie gambe mi sbatte contro un muro. Poi torna a guardarmi e apre la bocca, m'immagino per ruggire. Invece emette un timidissimo e molto femminile "miu", e torna a premermi contro il muro.
Noto un'anziana signora che osserva da una finestra.
"Signora, è suo questo bel gattone?" La donna è entusiasta del mio commento.
"Il mio micio! Bello, vero? Si chiama Pucci!"
"Pucci??????"
E' un po' come scoprire che il ringhiante pitbull dei vicini senza un orecchio si chiama Batuffolo, Fuffy per gli amici (o almeno quelli che non ha ancora sbranato).
"Ma cosa mangia?" cercando di ricordare se ultimamente sono spariti dei bambini dal vicinato.
"Mah, un po' di tutto. Gli piacciono molto le fiorentine."
Alla faccia.
"Beh, buona serata, signora."
"Arrivederci!"
Cerco di divincolarmi dalla presa sumo di Pucci, ma la mossa migliore la fa la signora agitando in aria una scatola di gustosi croccantini wiskas. Pucci decolla con la grazia di un Lockeed C130, e sono di nuovo libero.



A casa dei miei, Olivia e Conchita mi aspettano impazienti mentre preparo loro piattini succulenti. Miagolano e si strusciano contro le mie gambe.
"Ingorde! Siete grasse e ingorde!"
Poi penso a Pucci.
...un altro po' di bocconcini, piccine mie.

non un cattivo ragazzo...

Ieri, cucina. Ma non sono pronto ad affrontare serenamente la cronaca del peggior disastro dopo il Titanic. Diciamo solo che sono riconoscente per le piccole cose, come ad esempio un frigo che funziona (anche se contiene solo alcune lattine di Coca Light - dono della mamma che si preoccupa per la mia linea - e una scatola di Voltaren Ofta collirio). Per il resto continuerò a tirare avanti a pizza...

Oggi visita oculistica post intervento. Oggetto: occhio destro. Con la faccia appoggiata al trabiccolo oftalmetrico ascolto i grugniti di approvazione dell'oculista, apparentemente più compiaciuto della sua competenza che del mio occhio ora dotato di lente intraoculare, orgoglio e vanto dell'industria di precisione serbo-croata (scherzo). Mi guarda con una faccia strana quando mi permetto di far notare che condivido il suo entusiasmo solo in parte, dato che:

a) sono stato costretto a subire un intervento di rimozione della cataratta a 36 anni quando di solito si fa sopra i settanta, e
b) m'inquieta un po' questa cosa di essere improvvisamente diventato presbite totale (conseguenza naturale di questo intervento, ma alla faccia del "consenso informato" col cazzo che ti dicono queste cose!) e vederci da vicino come attraverso il vetro smerigliato delle antine della credenza della nonna.

Comunque tutto bene. Prossima visita tra un mese.
A questo punto accenno timidamente all'opportunità di fornire di correzione adeguata l'occhio operato due mesi or sono.
"Ma se ci vedi benissimo!"
Faccio un respiro profondo prima di rispondere.
"Dottore, mi scusi se ribadisco un concetto che forse non ho espresso con adeguata enfasi. Che io riesca a leggere le clausole scritte in piccolo su un contratto assicurativo a cinquecento metri di distanza non può che rallegrarmi. Ma visto che di mestiere non faccio il tiratore scelto ma l'impegato (so di deluderla, mi spiace), sarebbe per lo meno gentile da parte sua mettermi nelle condizioni di poter leggere ciò che ho sulla scrivania."
Mentre l'oculista mi guarda perplesso, compilo mentalmente anche per lui la pagella cui già ho sottoposto tutti i suoi predecessori, di qualsiasi branca della medicina appartenessero.
Giudizio complessivo: non un cattivo elemento, ma un po' scemo.

NY state of mind

Convalescente dall'operazione all'occhio destro, mi aggiro per casa spossato e inquieto cercando di raggruppare le idee con un vecchio scopettone. Sono in questa casa da tre settimane e sotto i mobili ci sono già gatti di polvere di dimensioni sconcertanti.
Una telefonata che rimandavo da mesi, e che col senno di poi avrei fatto bene a rimandare per sempre, ha spalancato la botola delle segrete sotto i miei piedi. Orribili strumenti di tortura mi circondano, ed io devo scegliere, come in un telequiz, come intrattenere il pubblico. Sceglierò la rapida abbronzatura dei tizzoni ardenti sulla pelle, oppure farò stretching sulla ruota?
Poi una corda mi viene gettata dall'alto, e mi arrampico verso la salvezza, a ritrovar la luce e il mio salotto.
Riconosco il sorriso benevolo del mio salvatore. Vi passo sopra le dita esitanti in una calma successione di timidi accordi, seguiti da un arpeggio che sembra più gatta Miciona quando camminava sulla tastiera per raggiungere il divano. Fa tutto un altro effetto, qui nel salotto nuovo di via Palestro. Prima, sepolto nelle catacombe scavate sotto casa dei miei, alcuni chilometri dalla superfice terrestre, potevo suonare e cantare -- dare, insomma, il peggio di me -- anche alle quattro di notte e nessuno (proprio nessuno) se ne sarebbe accorto. Ora, questa vetrata che dà sulla corte lascia uscire tutto, troppo, verso le orecchie di chi sta negli appartamenti, negli uffici tutt'intorno. Di mattina, poi.
Nondimeno (ho sempre sognato usare questa parola), mano a mano che riprendo confidenza con i tasti, considerata tutta la mia goffaggine pianistica, il pubblico incidentale del vicinato sembra perdere importanza. Quello che faccio qui dentro sono affaracci miei. E in questo momento sono impegnato ad arginare un'invasione di mori dalle lunghe sciabole, che vogliono farmi il cuore a fettine come un salame all'aglio.
Ci prendo gusto, anche se la mano sinistra ha una crisi d'identità e crede di essere in legno massello. Ecco i quattro maestosi accordi di una canzone che ho scritto anni fa. Poi un'improvvisa e alquanto imbarazzante amnesia sul seguito. Come al solito: qualsiasi cosa io faccia, parto bene per poi scemare nel nulla... Un po' di disciplina. Accenno uno stentatissimo Chopin prima d'interrompermi di nuovo. Non sono all'altezza, l'ho accettato da tempo.
Qualche accordo a caso, un arpeggio, la ricerca a orecchio delle note di una canzone che mi perseguita da giorni. Mi rilasso. Mi rilasso al punto che non mi accorgo di cantare un vecchio pezzo di Billy Joel.

Some folks like to get away
take a holiday from the neighborhood
Hop a flight to Miami Beach
or to Hollywood
But I'm taking the Greyhound
of the Hudson River Line
I'm on a New York state-of-mind

Bello. Erano secoli che non sentivo la mia voce uscire così sicura, così sciolta. E' una liberazione. Anche il testo è un indizio.

It goes down to reality
and it's fine with me
'cause I let it slide
I don't care if it's Chinatown
or if it's Riverside
I don't have any reasons
I have left them all behind
I'm on a New York state-of-mind

Naturalmente m'impapero nel finale. Ma ora che ci penso, non è così importante.

...

...il non voler capire, il non voler capire, il non voler capire. Darsi la risposta che non comprende il punto di vista dell'altro. E' facile, e lo faccio spesso. Ma quando lo vedo applicato a me, muoio.
Brucia. La carne viva irrorata dall'alcol. La mia speranza è che almeno la ferita ne venga mondata una volta per sempre.

Stordito, barcollante più d'un ubriaco, sulla strada di casa con gli occhi gonfi vado strappando pagine dal quaderno dei sogni. E giunto a destinazione lo specchio mi concede l'inquietante scoperta che, poco dopo un intervento agli occhi il pianto riga il volto di lacrime insanguinate.

novembre più che aprile

Piazza Ariostea.
La sera si spegne come la brace minuta di un fiammifero. Passano pochi istanti e comincio a sentir freddo. Viene su dalla panchina, attraverso i pantaloni e le mie robuste chiappe da orso.
Flussi e riflussi storici. Nella mia vita prima o poi sono sempre tornato qui, a sedere su queste panchine (proprio questa, addirittura), a correre, pattinare o passeggiare su quest'anello asfaltato, ad arrampicarmi sulla larga base di marmo del monumento ad Ariosto. Qualcuno ha imbrattato il cubo di marmo che sta alla base della colonna. Sciocche scritte con indelebile nero. Sottolineo la parola, in-de-le-bi-le. Vuol dire che non viene via. Mai. Vorrei avere qui gli artefici di tanto scempio per poter incidere la parola "idiota" sulle loro fronti con un bisturi. Qualcosa che si noti e, naturalmente, non venga via. Mai. Hanno imbrattato la mia infanzia, la mia adolescenza, ricordi dolcissimi e appassionanti.
Mi stringo in un giubbotto che non tiene caldo abbastanza per questo aprile autunnale, ma non importa. E' una prova di resistenza. La vincerò. Anche perchè ne decido le regole, e posso autoproclamarmi vincitore in un istante.
Le uniche luci, ora, sono i deboli lampioni, le insegne luminose dei bar, la gelateria, la pizzeria al taglio.
E il display del mio cellulare.
Accedo alla rubrica. Mentre tengo l'apparecchio sul palmo della mano destra, il pollice esegue automaticamente un goffo ma collaudato balletto sulla tastierina.
Tre volte il tasto 3, tre volte il 5...

"...informazione gratuita: l'utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile..."

...e cosa cazzo sto facendo qui fuori a congelarmi il culo?

frara

D'Annunzio aveva visto bene...

O deserta bellezza di Ferrara
to loderò come si loda il volto
di colei che sul nostro cuor s'inclina
per aver pace di sue infelicità lontane;
[...]
Loderò le tue vie piane,
grandi come fiumane,
che conducono all'infinito chi va solo
col suo pensiero ardente,
e quel lor silenzio ove stanno in ascolto
tutte le porte
se il fabbro occulto batte su l'incude [...]

suonano la nostra canzone

Naturalemente, e anche se lei ne è sempre stata all'oscuro, come ogni coppia che si rispetti la cantantessa ed io avevamo la nostra canzone. Entrata per puro caso nella mia collezione di CD dopo una giornata insieme all'Ikea e quattro passi in centro a Bologna, con tappa obbligatoria da Nannucci.

Era un freddo due gennaio di luminarie e caldarroste. Io avevo il cappellino Timberland con visiera, lei gl'immancabili stivali (Dio, le cose che diamo per scontate sono quelle che poi ci mancano di più).

Quando sono inquieto guardo tutto e non compro niente, ma non volevo uscire dal negozio a mani vuote. Per fortuna smuovo d'istinto alcuni cd sotto la lettera A, ed ecco comparire un jolly inatteso. A casa l'appoggio sulla credenza e me ne dimentico. Il foglio con i testi è una carta geografica degli USA, e ci serve semplicemente per dirimere una controversia sul confine tra Texas e Luisiana, nient'altro.

Due giorni dopo lei riparte, io, ancora confuso e fiaccato dalle mille vicissitudini in così pochi giorni, mi siedo e infilo il cd nel lettore del mac. Ascolto canzoni a casaccio, senza un ordine preciso. Poche note addentro un certo pezzo sento il cuore che mi viene strappato dal petto. Come se ne avessi compreso all'istante tutta la forza profetica. Ascolto e riascolto uno dei ritornelli trattenendo i singhiozzi. Da qui in poi è come se sapessi che ogni giorno, ogni minuto in più è un regalo prezioso da non sprecare.

And I ride along side,
And I rode along side you then,
And I rode along side 'til you lost me there in the open road,
And I rode along side 'til the honey spread itself so thin,
For me to break your bread, for me to take your word. I had to steal it.


Manca la chiosa, ma stasera proprio non viene.

barfly

"Non preoccuparti, nessuno s'innamora di me"

- M. Rourke nei panni di C. Bukowski nel film Barfly

Per qualche oscura e inquietante ragione la cosa riguarda anche me. C'è qualcosa, nel mio modo di essere e di amare, che sconcerta. Me lo sono sentito dire più di una volta. La pacatezza dei miei modi, la fiducia cieca con cui mi lascio cadere nell'abisso dei sentimenti. Spavento. Anche con i miei quasi novanta chili, le mani grandi, le spalle larghe e il pizzetto ispido, le donne hanno paura di rompermi come il più fragile dei cristalli. Mi maneggiano con apprensione, guardandomi perplesse negli occhi, in attesa e alla ricerca di una prova che la mia natura sia diversa da quella che hanno percepito.

A volte mi spiace di non poterle accontentare.

Si avvicinano anniversari infausti. Ricordi raggomitolati nel letto col telefono staccato, lunghe conversazioni notturne, avanzi di pizza surgelata lasciati nel piatto per giorni. E il dolore straziante del comprendere che tutto ciò che provavo era assolutamente, irrimediabilmente inutile.

Nella casa nuova, nella foga del trasloco, ho aperto uno scatolone di troppo.