ice cold

Ballata


Com'è fredda
com'è fredda la notte
senza amore.
Ogni respiro
è uno sbuffo di condensa,
ogn'illusione
un fantasma esorcizzato,
un ricamo
di gelo e galaverna
attorno al cuore,
com'è fredda
questa notte senza amore.

E in questo strano
tempo scombinato
ogni sospiro
è un turbine di vento,
ogni pensiero
uno stiletto
- ghiacciato e
diafano -
che sporge mestamente
dal mio petto,
dal cui squarcio
esangue sgorga un poema
di mille e più parole,
com'è fredda
questa notte senza amore.

Infine
così
nell'attesa
indifferente il vuoto
mi s'avvolge.
Ed ogni voce
langue,
ogni rumore
muore,
ed il silenzio non è
che una canzone sussurrata,
una ballata
che suona stancamente
in queste ore,
com'è fredda
com'è
fredda
questa notte
senza amore.

anybody there?

Non ricordo di nessun inverno in cui abbia sofferto il freddo come quest'anno. Più freddo, sempre più freddo. Come se mi stessi progressivamente allontanando dalla fonte di calore. Qualunque essa sia. Mi raggomitolo nel piumone, le braccia che stringono le ginocchia al petto, stupito - che dico stupito, stupefatto! - che solo due anni fa ci dormivo sotto solo con i boxer.

A volte quest'assenza è una tormenta di neve in cui rimango sepolto, rintanato tra le nodose radici di un albero. Poi il cielo ceruleo dell'alba, spazzato dal vento, m'illumina, mi desta. E' freddo, così freddo, anche se la bufera è lontana. Tremando risalgo il pendio fino alla cima, da dove si domina con lo sguardo l'immacolato, accecante paesaggio invernale.

Faccio coppa con le mani davanti alla bocca grido: "Non c'è nessuno?"

E non mi risponde nemmeno l'eco.


just a dream within a dream

Apro gli occhi ed è giorno. Sabato. Filtra poca luce dalle finestre chiuse, anche se il display azzurro della sveglia digitale dice che sono le nove e trenta. Posso indovinare che piove. Non sono curioso di aprire e dare luce, anche se (stranamente) non c'è niente di più rilassante della pioggia luccicante sui ciottoli sconnessi di vicolo del Voltino. Sono già abbastanza rilassato di mio. Lascio che il sonno scivoli via piano, senza fretta, non lo spingo né lo trattengo.

Però giro la testa sul cuscino e richiudo gli occhi, tentando di rientrare almeno un poco nel sogno da cui sono appena scivolato via. Ovviamente non ci riesco, quindi mi accontento di richiamare alla mente le immagini, come uno di quei film cult che danno alle tre di notte, e che per questo quasi sempre si seguono in uno stato alterato di coscienza.

Corro. Corro a testa bassa tra fiamme e macerie. Sento spari e il sibilare dei proiettili che mi sfiorano e impattano nei muri, proiettando schegge d'intonaco che m'accecano. Il boato di un'esplosione mi spinge giù per un pendio che m'accorgo essere una scala. Altre persone mi precedono e mi seguono nella penombra dello stabile dove ci siamo rifugiati. Avanziamo in fretta, respirando faticosamente nella polvere e nella paura, contando i secondi che separano le esplosioni. Sembrano diminuire, e questo potrebbe dire che presto ci cadranno sulla testa. Tre, due, uno. L'esplosione è vicinissima, la terra trema, polvere e calcinacci ci piovono addosso. Qualcuno grida, qualcun altro impreca. Stringo i denti e continuo ad avanzare, certo che non mi rimangano che pochi secondi di vita.
Non sento l'esplosione. D'un tratto il soffitto mi frana addosso apparentemente senza motivo. Respiro con affanno doloroso. La semioscurità polverosa si anima di tremule luci iridescenti. Sbatto le palpebre più e più volte, cercando di capire se vedo realmente quelle luci, o è un'allucinazione di qualche tipo. E' un'ingenuità. Se fosse un'allucinazione non lo capirei certo così, e l'intuisco anche nel sogno. Ma continuo comunque a sbattere le palpebre finché non mi rendo conto che ciò che sto vedendo sono le anime degli uomini che erano con me e ora sono morti. E' una strabiliante pioggia luminosa all'incontrario. Uno sgocciolio verso l'alto, come se la forza di gravità fosse stata invertita. Le luci dai colori più diversi appaiono lentamente nel buio in basso, e dopo un breve attimo d'esitazione, come gocce che s'ingrassano sulla bocca di un rubinetto difettoso, "cadono" velocissime verso l'alto.
Cerco di guardare me stesso, per vedere se da qualche punto del mio corpo si stia formando una luce simile. E vedo una luce. Bianca, così bianca e intensa da ferire gli occhi. Tutto sparisce, inghiottito da quella luce e dal silenzio, e io precipito nell'angoscia, il petto sempre più pesante, il respiro affannato e doloroso. Mi agito, irrequieto, braccia e gambe che cercano un appoggio. Dove sono? Dove? Dove sono? La mente inceppata continua a domandarselo finché non sento una voce chiamare il mio nome.
E la luce bianca non è più così dolorosa e accecante. Anzi, posso vedere tende alle finestre che filtrano piacevolmente caldi raggi solari. I miei occhi scorrono nella stanza da letto, arredata in modo essenziale e con buon gusto con pochi mobili antichi. Il legno scuro, probabilmente noce, aiuta a rasserenare il mio spirito, così come i candelabri di rame, le innumerevoli candele bianche di varie dimensioni e dallo stoppino bruciacchiato, le travi antiche che scanalano il soffitto.
La voce chiama di nuovo il mio nome, e voltando la testa su quello che m'accorgo essere un cuscino mi trovo ad osservare il viso di una donna. Le sue labbra s'incurvano in un sorriso così delizioso e fresco da farmi male dentro. Per un attimo dimentico di respirare. "Stavi sognando" dice semplicemente. E non posso fare a meno d'amarla. Non posso, come non potrei volontariamente fermare il battito del mio cuore.
Appoggio il dorso della mano sul cuscino, e lei appoggia il viso sul mio palmo. Sempre sorridendo, col suo viso m'accarezza leggera la mano. "Sei sveglio?" chiede con dolcezza. No. No, maledizione. E' fin troppo ovvio. Sto sognando. Ancora. E...

Mi sveglio Sabato mattina che piove, fuori dalle mie finestre chiuse, sui ciottoli sconnessi di vicolo del Voltino, chiedendomi se vi sarà risveglio anche da qui, come nella poesia di Edgar Allan Poe.


Take this kiss upon the brow!
And, in parting from you now,
Thus much let me avow -
You are not wrong, who deem
That my days have been a dream;
Yet if hope has flown away
In a night, or in a day,
In a vision, or in none,
Is it therefore the less gone?
All that we see or seem
Is but a dream within a dream.



Quel poco di serenità che m'è dato si cela nell'ultimo scrigno della mia scatola cinese dei sogni.


november rain

Trenta novembre

Piove
anche nei miei sogni
da troppo tempo
non sopporto questo
stillicidio di sentimento
che la gente passando
calpesta
come foglie morte
sul cemento
umido dei marciapiedi

e
non riesco a credere
che già sia il trenta
di novembre.



uno zero

Uno, zero. Bianco, nero. Giorno, notte. Luce, buio. Vita, Morte.

E' ora, maledizione, di prendere una dannata decisione.

meno due

Stamane la nebbia m'aspettava al varco.

Troppo. Stanco. Ora.

fog

meno tre

Qualcuno deve aver fatto un cazziatone coi fiocchi al responsabile per gli omaggi aziendali, perché quest'anno, con solerzia inquietante, abbiamo ricevuto la strenna già ieri (che era il 24 novembre). Ora, non è che la cosa mi dia così fastidio. Ma non riesco a far a meno di chiedermi se tra il mese di ritardo dell'anno scorso e il mese d'anticipo di quest'anno non sia possibile trovare una ragionevole media.

[...]

Pensavo, oggi, tra me e me delle forme e dei numeri, mentre contemplavo l'ordinata stampa da excel dei contributi versati al F.do di Solidarietà Credito. Colonne ben proporzionate di date e importi, totali in grassetto scanditi per trimestre, filetti a fine pagina. Il mio sguardo scivolava sui numeri, soppesando meditatamente le proporzioni, le implicazioni. E all'improvviso venivo trascinato su una strada pericolosa da un'innocente concatenazione mentale.

Dunque, nel giugno 2002 - disse boriosamente non so quale metà del cervello all'altra -, l'ufficio si trovava ancora nella vecchia sede, abitavo nella grande casa in via Copernico, ero agli sgoccioli con quella che sarebbe stata la mia ultima partita a scacchi via e-mail (e la stavo pure perdendo), e ogni, ognissimo giorno, quando staccavo da lavoro, montavo in auto e mi fiondavo a Frassinelle sul set del film, per sentire gli attori recitare le battute che avevo scritto per loro. Dunque, nel giugno del 2002 ero ragionevolmente felice.

La metà di cervello che aveva ascoltato non sembrò particolarmente colpita dalla notizia. Si limitò ad un sorrisino sufficiente e, in evidente tono di sfida, portò i miei occhi su "agosto 2002". L'altra metà raccolse la sfida con orgoglio, enunciando con precisione le tratte in traghetto, le dune di Chia e Piscinas, le tavolate di amici, proseguendo sempre più animatamente fino ad esaurimento scorte.

Kim Novak, platinata e sognante, indicava col ditino squisitamente calzato in un guanto di camoscio due punti sulla sezione del tronco di una sequoia, nel film "La donna che visse due volte". Qui sono nata, qui sono morta. Il tabulato dei contributi al fondo esuberi fu per un momento come il minuto reticolo su quel tronco. I cerchi sostituiti dalla colonna delle date.

Agosto 2002, settembre 2002, novembre 2002, febbraio 2003, maggio 2003.

Qui ho preso l'aereo verso l'ignoto, qui l'ho preso per raggiungere il mio destino. Qui ho scritto una poesia d'amore, qui ho imbucato tulipani olandesi. Qui ho vegliato col respiro mozzo, qui ho riposato tra le braccia della mia amata. Qui ho riso da rimaner senza fiato, qui ho pregato di rimaner senza lacrime. Qui ho gustato le seadas col miele, qui ho bevuto l'orribile caffè nero della sconfitta. Qui ho passeggiato con l'amata al fianco, qui mi sono trascinato a casa senza forze o speranze. Qui ho spento le luci, qui ho acceso candele profumate. Qui ho recitato, qui sono stato me stesso. Qui ho avuto paura ma sono stato coraggioso, qui invece sono stato un codardo. Qui sono nato, qui sono morto.

La vita si dipana davanti e dietro me, divisa in trimestri.


meno quattro

Scendendo.

Un volo d'uccelli, frenetico, ondeggiante nell'aria pulita, tra le palme di piazza Yenne, mentre il sole cala. E' una sera colorata da vetrine e pensieri. Venerdì e innamorato. Il cervello cortocircuitato dai baci. Fendo la folla pittoresca della città di mare, innamorato, innamorato di tutti. La cicciona con la maglia nude-look, il guercio che si mangerebbe Corto Maltese a merenda.

I lampioni mi riportano all'auto in via Roma, col porto dall'acqua scura, il mare che rabbuia. Si sta facendo tardi, ma è ancora così presto. Ora che l'ho tenuta tra le braccia sono ancora più impaziente, più agitato. Che ore sono? Dove sei, amor mio?

Poetto mi scivola accanto, fuori dal finestrino appannato dal mio respiro. Ho paura di svegliarmi e scoprire che è un sogno.

[Messaggio probabilmente trovato sul tavolino di una stanza d'albergo a Cagliari]

meno cinque

Al ritorno da un funerale, frastornato dalla ridda infinita di parenti mai incontrati prima. Il de cuius un'idea lontana e nebulosa dal taglio ordinato di capelli e i modi gentili. Strette di mano, abbracci.

Un tempo forse avevo fede. In chiesa mi veniva naturale pregare, anche se non avrei saputo dire se le mie preghiere fossero indirizzate a qualcuno in particolare, della SS Trinità. Oggi, cullato dal mormorio indistinto del rito che mi scorreva addosso - come il fiume sul greto sassoso - la fede taceva.

Solo un sussulto, dove credo di avere un cuore, nell'ora sbagliata ma inevitabile. Anche lì, mimetizzato dal dolore dei più. Ben celato sotto il giubbotto pesante, la sciarpa.

Novembre. Con mani gelate scuote i rami dell'albero dei ricordi, e i frutti ormai marci mi cadono in testa.

Rendiamo grazie.


meno sei

Il vento soffiava ma non sentivo freddo, quel giorno sulla banchina a Marina Piccola. Un panino sotto un tendone - praticamente all'aperto -, col sole sardo che occhieggiava benevolo tra le nuvole.

Sperimento, in questi giorni, una nuova forma di ricordo. L'elisione istantanea dei lunghi mesi di convalescenza emotiva. Tutto sparito in un bà. Mai accaduto. Non è un ricordo, è "adesso".

fadin' memory II

Qualcuno con la muta armava una barca, un catamarano dalle vele arancioni e bianche, una pala del timone appoggiata allo scafo di dritta, l'altra fuori dalla mia vista. Il cuore era già al largo, e un vento propizio lo sospingeva sulle onde crestate di spuma bianca.

Non è un ricordo, è "adesso".

L'aria m'entrava nel petto ad alimentare la fornace. Le nostre labbra si sfioravano allo sgraziato cantare dei gabbiani.

Non è un ricordo.

Ai piedi della Sella Del Diavolo

adesso

la sua mano m'accarezza la nuca.

toilet paper (memorable quotes)

Subject, Toilet paper. One, on 6 June 1941 this vessel submitted a requisition for 150 rolls of toilet paper. On 16 December 1941 the requisition was returned with stamped notation, 'Cannot identify material required.' Two, the commanding officer of the USS SeaTiger cannot help but wonder what is being used at the Caviti Supply Depot as a substitute for this unidentifiable material once so well known to this command.

Cary Grant in Operation Pettycoat

time out of joint

raining

Il tempo non aiuta.
Questo stillicidio di pioggia e ricordi che inzuppa il calendario, nel silenzio della casa. Nel silenzio. Gutta cavat lapidem. S'è scavata una via. There's a hole in my head where the rain comes in. E ciò che entra poi non esce più.

Immergo la sonda nel profondo. Uno scandaglio in cerca di fondali.

cold wind blowin'

Freddo.
Non sono preparato al freddo, anche se ho steso il piumone sul letto, nel suo bel copripiumone bianco e rosso dell'Ikea. Il calore non mi basta mai. E in questa circostanza mi rifugio nell'abbraccio del sogno.

subway

Allineando i "se" uno accanto all'altro, potrei tracciare due volte la circonferenza della Terra.

Intanto m'incammino. Intanto m'incammino.

halloween

E un altro Halloween se n'è andato.

Per anni, le uniche notizie che avevo riguardanti questa festa mi erano date dai fumetti di Shultz. Bambini vestiti da fantasmi, "o la borsa o la vita" (così "trick or treats" veniva tradotto negli albi dei Peanuts), l'immortale Linus che trascorre la notte nell'orto in trepidante attesa del Grande Cocomero.

Poi, trascinato dagli eventi in quel di Houston, Texas, vi giunsi nel bel mezzo della follia halloweeniana, e cominciai a rendermi meglio conto. Percorrendo in taxi la six-ten, ai lati della strada potei vedere smisurate distese di enormi zucche arancioni. Prego notare che l'accento è da porsi su "smisurate" e "enormi". Da qui il dubbio: ma davvero avevano bisogno di tutte quelle zucche? Di quante zucche, in termini del tutto teorici, aveva mai necessità lo houstoniano medio? Non sapevo che di lì a poco avrei trovato risposta alle mie domande.

Ancora pochi giorni prima, nel prendere l'aereo, non mi avrebbe nemmeno sfiorato il pensiero di poter essere invitato ad una festa di Halloween, ma ora che l'amica al telefono me lo proponeva all'improvviso non stavo più nella pelle. La festa si sarebbe tenuta a casa di Meredith, una giovane e molto gentile signora del gruppo di volontariato del Medical Center.

Arrivammo sul pick-up di Leslie. Di quante zucche aveva bisogno lo houstoniano medio? Solo dal cancelletto del giardino agli scalini della veranda ce n'erano sei, due delle quali, poggiate sul primo scalino, erano intagliate con stupefacente maestria, evidenziata dalla tremolante e suggestiva luce della candela posta al suo interno. Dentro ce n'erano altrettante, per giungere al totale di dodici e permettendomi una prima stima del fenomeno. Dunque, dodici zucche pro capite per cinque milioni di abitanti (che all'epoca era la popolazione di Houston) facevano sessanta milioni di zucche. Okay, ero colpito.

A quella festa conobbi anche Lilly ed Elsa, che sarebbero diventate mie grandissime amiche. La prima travestita da coniglio (al nostro successivo incontro non la riconobbi, senza lo strato di peluche), la seconda da camerierina francese sexy (sottolineato svariate volte e in rosso "sexy"). Non è infatti vero che a Halloween ci si travesta esclusivamente seguendo temi tenebrosi o lugubri. E' il loro carnevale, e qualsiasi costume va bene. Forse è per questo che rimasi di stucco - sicuramente tratto inganno dalla camicia di flanella a quadrettoni, i jeans slavati con fibbiona d'ottone con sopra il proverbiale armadillo, e i camperos -, quando Joy iniziò a cantare. Ma insomma, provate a immaginare: in una casa in Texas, un tizio vestito da cowboy attacca il jack all'ampli e accorda la chitarra. Cosa pensate che suonerà? Lucio Battisti? E così Meredith richiama l'attenzione del publico (del "variegato" pubblico, composto da streghe, scheletri, fantasmi, conigli, alieni, samurai e un R. Nixon) annunciando che Joy canterà qualche canzone. E, dopo il caloroso applauso d'incoraggiamento, Joy arpeggia per qualche secondo, per scaldare le dita, e poi attacca:

"Il carretto passava e quell'uomo gridava: 'gelati!'..."

Stupore.

Però è giusto. Insomma, se fosse stato lui a Ferrara e io a cantare, avrebbe sentito "A forest"!

ol' devil of me

Doppio dvd piratato da collega. La versione estesa de Il Signore Degli Anelli di Peter Jackson.
Per allontanare la mente da pensieri che ormai prevedo con sconcertante precisione, evito di pensare al film e mi dedico alla realizzazione di copertine e le etichette personalizzate, così che i dvd facciano la loro bella figura in mezzo a tutti gli altri. Concentrazione. I pensieri si concentrano sui singoli passaggi. Trovare la grafica in internet, modificarla ad hoc, stampare e tagliare.
La prima stampa su carta patinata viene fuori tutta sbavata, a causa di un errata impostazione dei parametri di lancio. Sto più attento, ed ecco una stampa niente male. Peccato che è un tantinello troppo grande, e il cutter è costretto a separare Gollum dal resto della combriccola sulla copertina de Le Due Torri. Tutto sommato, però, accettabile.
Errare Humanum Est (una curiosità fattami notare da una vecchia amica: l'acronimo risultante dalla celeberrima massima latina - EHE - è la parola tedesca per "matrimonio"... meditate gente, meditate), ma perseverare è diabolico. E' vero, confermo. Sono un vecchio diavolo di un nostalgico. E guardacaso Le Due Torri è un film che ho visto in un multisala a Cagliari. E i dvd non fanno in tempo a raggiungere la mensola.
Questo vecchio diavolo ha dei problemi.

road to nowhere

Tre cose che rendono "incredibile" la viabilità ferrarese.

1) Ad ogni semaforo in cui è possibile disporsi su due colonne un'automobile su due le occuperà entrambe, decuplicando la coda e dilatando in modo esponenziale l'attesa;

2) Ogni ciclista che si rispetti accorgendosi di uno o più veicoli che gli concedono la precedenza per qualsivoglia manovra cesserà all'istante di pedalare, cercando di intralciare il traffico per il maggior tempo possibile;

3) Non importa cosa sia sulla vostra strada. Che sia un semaforo, un incrocio a X, un incrocio a T, un rettilineo, un tornante, un passaggio a livello, un sottopasso, un cavalcavia, il traforo del Monte Bianco, domani al suo posto potrebbe esserci una rotatoria.

eggs

After that it got pretty late. And we both hadda go, but it was great seeing Annie again, right? I realized what a terrific person she was and-and how much fun it was just knowing her and I-I thought of that old joke, you know, this-this-this guy goes to a psychiatrist and says, "Doc, uh, my brother's crazy. He thinks he's a chicken." And, uh, the doctor says, "Well, why don't you turn him in?" And the guy says, "I would, but I need the eggs." Well, I guess that's pretty much how how I feet about relationships. You know, they're totally irrational and crazy and absurd and... but, uh, I guess we keep goin' through it because, uh, most of us need the eggs.

- W. Allen, Annie Hall, 1977

come on baby, light my fire

Un mosaico di foto della cantantessa davanti a me, sulla scrivania. Pessimo segno. Per un attimo ho il fiato corto, l'improvvisa voglia di guadagnare punti del programma Hi-Fly Meridiana. E' quando, provvidenzialmente, mi mordo l'interno della guancia, provocandomi un dolore tale da dissolvere ogni pensiero (romantico o meno) in una nuvoletta di imprecazioni.

pictures of you

Anni fa (tanti anni fa), cercando qualcosa nel mio portafogli vi ritrovai la foto della mia vogliosa ex morosa inglese Liz. Era dicembre, uno di quei bei mesi densi di nebbia come non se ne vede più, e la fine del nostro rutilante rapporto risaliva ad agosto. Alquanto stupito per la grossolana amnesia, nel locale dove in quel momento mi trovavo con amici a bere birra e fagocitare cibi iperproteici cominciai a domantarmi quale sorte riservare alla foto. Tenersi semplicemente in tasca il ritratto non era ammissibile. Occorreva trovare un metodo per disporne che fosse ad un tempo efficace, definitivo ed altamente simbolico.
Ora, parliamoci chiaro, quella non era una foto qualunque. La ragazza era davvero carina, anche con quell'improbabile acconciatura alla Lady D., e immortalata splendidamente su fondo azzurro in un abito scollato e un sottile filo di perle al collo. Quel fotografo sapeva il fatto suo. A completare il tutto, sul retro c'era una dedica al sottoscritto, dolce e allusiva al punto giusto.
Mentre mi spremevo le meningi la foto passava di mano in mano attorno al tavolo, in senso antiorario, suscitando vari commenti, molti dei quali irripetibili. E il mio fastidio era montato al punto che, impossessatomi di un accendino abbandonato sul tavolo, mentre la foto mi veniva porta indietro le detti prontamente fuoco all'angolino superiore sinistro.
La fiammella ammiccò, quasi incerta se estinguersi, come intimorita dalla bellezza che avrebbe potuto incenerire, dalla grazia e l'eleganza che minacciava. Ammiccò, danzò, sfarfallò. E infine attecchì allegramente come un falò estivo.
Chi reggeva la foto ebbe un attimo di esitazione, indeciso se lasciarla cadere a consumarsi nel posacenere vuoto, oppure se farla cadere nel piatto che mi stava davanti e che fino a quel momento aveva ospitato solo un'insignificante montagnola di tovagliolini di carta. Forse allettato dalla potenziale spettacolarità della seconda ipotesi, aprì dunque le dita e depositò la foto in fiamme sulla soffice montagnola di tovagliolini. Che divampò come un incendio boschivo.
La fiamma mi arrivò in un attimo all'altezza delle sopracciglia, che sottrassi al rogo appena in tempo, e l'incendio fu intenso ma anche molto breve. Il combustibile, i tovagliolini, si esaurì in fretta, e mi ritrovai presto in balia del fumo e della cameriera imbufalita. Mi scusai profusamente con lei e con gli amici (anche se in effetti la responsabilità NON ERA tutta mia!!) e m'immersi nella nebbia che stagnava in piazza castello, preda di un rammarico che nulla aveva a che vedere con l'umiliazione di poco prima. La verità vera, che ora cominciavo a comprendere e che era stata sopraffatta da una stizza infantile, era che desideravo conservare un ricordo di Liz. Davvero. Anche se non ci eravamo capiti, se non eravamo fatti l'uno per l'altra, e lei era stata un'arpia e io un maledetto egoista, mi mancava. Quella foto era un bel ricordo che io avevo distrutto. Io non so più tanto bene com'era fatta Liz. Ho qualche ricordo dei suoi occhi verdi, delle sue mani e, ovviamente, dell'acconciatura alla Lady D. Ma pur sforzandomi, non so più tanto bene com'era fatta Liz. Vorrei quella foto, ora, per ricordarmelo.

Mesi fa, con grassi lacrimoni che mi bruciavano il viso, come quando ero bambino e mi sfracellavo sull'asfalto grazie ai pattini, ho preso le sole quattro (4) foto della mia cantantessa in mio possesso e ne ho fatto minutissimi e dolorosissimi coriandoli (niente fuoco stavolta). Vorrei poter dire di averli dispersi nel vento. La realtà è che hanno fatto una fine molto meno poetica.

E l'altra sera ho cominciato a pensare a Liz, e non so neanche bene perchè. Forse il telefilm ambientato a Londra, o più probabilmente uno di quei momenti profondamente introspettivi istigati dalla cattiva digestione. Per un paio d'ore è stato tutto un rivoltarsi fra le coperte, ma con la consapevolezza di non avere scampo. Per fortuna nel lontano gennaio 2003 ho avuto la lungimiranza di fare un backup su cd e, magia, ecco sbucare le quattro (4) agoniate scansioni dalla cartella "temp".

La stampantina Kodak sputa le foto sulla scrivania e io le dispongo a casaccio, prima, con arte poi. Le guardo, emozionato, colmo d'affetto. Ho accarezzato quel collo, quel viso, quei capelli, baciato quelle labbra. Mi sono tuffato in quegli occhi e a volte penso di non esserne mai riemerso. Ho amato con tutte le mie forze e adesso... adesso mi sono appena morso l'interno della guancia e sto imprecando in una lingua esotica.

Le foto sono nell'album.

una risorta

Di nuovo si fa il vuoto attorno a me.

Pensavo di essermi abituato a questa sensazione. Invece niente. Anzi, sempre più dolorosa.

Scoprire che un sorriso non è per me, che un pensiero non è per me, che posso solo sedere e lasciare che le ore, i giorni, gli anni mi scorrano addosso come un fiume che si rifiuta di portarmi con sè. Che i miei sogni sono moneta fuori corso.

La potatura non è venuta bene, vedo.

Due giri dell'anello di piazza Arisotea, mentre con P. si parlava di niente, e tutto è stato di nuovo chiaro. Desidero smettere di desiderare l'impossibile. Ma anche questo è un desidero che rientra nella catagoria "impossibile".

Gozzano scriveva:

"E' come un sonno blando
un ben senza tripudio;
leggo lavoro studio
ozio filosofando...

La mia vita è soave
oggi, senza perchè;
levata s'è da me
non so qual cosa grave..."

"Il Desiderio! Amico,
il Desiderio ucciso
vi da questo sorriso
calmo di saggio antico...

Ah! Voi beato! Io
nel mio sogno errabondo
soffro di tutto il mondo
vasto che non è mio!

Ancor sogno un'aurora
che gli occhi miei non videro;
desidero, desidero
terribilmente ancora!..."



Basterà, mettere in rima la mia angoscia?

comic relief

Ecco, pensavo di non poter rimanere oltremodo stupito o deluso da una certa congrega di (diciamo in ferrarese) "ciocapiàtt", ed ecco che questi non solo toccano il fondo ma iniziano pure le trapanazioni. I ciocapiàtt in questione sono i miei (ma non esageriamo) rappresentanti sindacali, che quest'oggi hanno tenuto una brillante assemblea per rendere edotta la base sulla loro abilità di cabarettisti.

Una volta vidi un esecrabile film in cui il protagonista, scambiato per il conferenziere della serata, pur di sfuggire a un gruppo di tipacci che gli volevano male, s'ingegnava di relazionare su un argomento a lui del tutto sconosciuto, per di più commentando una sequenza di diapositive apparentemente senza connessione. L'effetto comico fu di una certa portata. Ebbene, l'assemblea di quest'oggi è stata inquietantemente simile.

L'aspetto più sconvolgente, però, è stato la disinvoltura con cui hanno raccolto il cosiddetto consenso. Dopo un'ora e mezza di blande chiacchiere e ben poco approfondimento, e per di più saltando allegramente di palo in frasca, toccando spesso argomenti che nulla hanno a che vedere con la nuova piattaforma, cade improvvisamente come un'incudine dal cielo la proposta di votazione.
Cioè, uno dei cabarettisti, pardòn, dei sindacalisti, salta su di botto e fa:
"bene! adesso votiamo!"
Segue un lungo e assai perplesso silenzio, seguito da alcune timide voci che chiedono sommessamente "Cosa?" (nel senso di "cosa votiamo?").
"Allora," prosegue un altro di loro, "direi di fare due votazioni separate sui due punti."
Altre voci: "Quali punti? A cosa vi riferite?"
"No," riprende il primo, "credo sia meglio una sola votazione per approvare i due punti insieme. D'accordo?"
Sempre dal fondo: "Quali punti? Su cosa dobbiamo votare?"
"Bene! Allora alzi la mano chi approva!"
"Ma chi approva cosa?"
"Ora alzi la mano chi si astiene!"
"Eh??!!"
"E ora la alzi chi è contro!"
"Ma contro cosa?"
"Bene! Direi che i punti sono stati approvati! Grazie! Alla prossima assemblea!"

A questo punto, una sola parola: mah?!

drive drive drive

Una tre giorni idilliaca. Seratina del Venerdì a zonzo per Ferrara in ottima compagnia: buskers, musica e tante chiacchiere. Sabato al mare a trovare cari amici: 'o sole, 'o mare, aria fresca (un vento che siamo dovuti scappare dalla spiaggia). Domenica grigliatona all'aria aperta sul Po: un po' di pallavolo, due mani a carte, risate. Abbastanza per stemperare la repentina e inattesa malinconia della notte prima.

Decisamente mi stavo abituando troppo bene.

Ed ecco stasera l'inquetudine, il vuoto dentro che urla, prende il sopravvento. Improvvisamente, e non so quando è successo, so solo che un attimo sono lì che faccio i musi allo specchio mentre lavo i denti e l'attimo dopo sono in macchina in via Modena, e improvvisamente dunque, mi si profila davanti il casello di Ferrara Nord, che imbocco con scioltezza prendendo poi direzione di Padova.

Mi ripeterò, la mia auto è come una macchina del tempo. Merito per lo più del lettore cd. Ma gli effetti sono innegabili. L'unica cosa che non posso (e non devo) assolutamente fare quando sono al volante è chiudere gli occhi, ma so che se lo facessi l'illusione sarebbe completa.

Direzione Padova. La Civic color acciaio sfreccia sull'asfalto dell'autostrada come un sussurro. Camion, autoarticolati, cisterne, numerose auto vecchie e malconce con targhe est-europee, i soliti folli che mi superano da ogni direzione. Ma gli svizzeri non dovrebbero essere lo specchio della disciplina?

Rovigo.

Non mi azzardo a chiudere gli occhi, nei quali si sovrappone l'immagine della tangenziale di Bologna, l'uscita per l'aeroporto Marconi. Accendo la radio. Nel lettore c'è ancora la raccolta degli Electric Light Orchestra. La canzone è Telephone Line. "Hello, how are you, have you been alright through all these lonely, lonely, lonely, lonely, lonely nights?"

Stanghella.

"I'd tell you everything if you pick up the telephone"

Il fatto è che, mentre sorpasso un autotreno sculettante, mi rendo conto che all'altro capo della linea non c'è nessuno che può rispondere. "I'll just sit tight through shadows of the night, let it ring for ever more." Lascio squillare e squillare. Non c'è nessuno in casa. Anzi, non c'è nemmeno la casa. Allora cambio disco.

Padova.

Imbocco la Milano Venezia. Se prima il traffico m'invastidiva, ora s'avvicina a terrorizzarmi. L'avventatezza dei camionisti lascia stupefatti. L'ideale per questo clima da catastrofe incombente è un po' di sano malsano esistenzialismo. Ho quello che ci vuole. Nel bracciolo, ben celato come nei migliori film di James Bond, "Seventeen Seconds" dei Cure. La chitarra di A Reflection attacca, dipingendo la notte di un profondo blu opaco e oleoso. Sul divanoletto aperto, il suo viso appoggiato al mio petto. Singhiozzi. La mia voce, proveniente da Plutone, che dice "non importa, non importa," e s'allontana nel vuoto siderale come una sonda Voyager, per sempre.

Mestre.

"Hello image, sing me a line from your favourite song. Twist and turn, but you're trapped in the light all the directions were wrong..."

Venezia.

Accosto a Piazzale Roma. Scendo lasciando le quattro freccie a lampeggiare, scendo a respirare l'aria fresca dall'inconfondibile odore di mare, ovvero alghe, pesce morto, scarichi dei motori nautici. Mi riempio i polmoni, grato. Poco distante gli autisti di due grosse corriere blu chiacchierano sommessamente. Il fumo delle loro sigarette è trascinato via dalla brezza. Mi rendo conto di non sapere che ore siano, e non me ne importa molto comunque. Non trovandomi più protetto dall'involucro cronoconduttore dell'auto, la mia dislocazione temporale si contrae. Il mio riflesso sul lucido finestrino documenta quest'effetto Dorian Gray in cui recupero di botto gli anni percorsi a ritroso.
Guardo ipnotizzato il bagliore arancione delle mie frecce che illumina a intermittenza il muretto. Non voglio tornare, non voglio rientrare nella mia vita. Almeno finchè qualcosa non si sia mosso, assestato, sistemato.
Un ultimo profondo respiro e risalgo in macchina. Armeggio un po' tra cruscotto e tasche delle portiere alla ricerca di un cd che possa adattarsi al viaggio di ritorno. Non lo trovo. Mi reinserisco nel traffico col silenzio in testa e un torbido ribollire nel cuore.

Mestre.

"Qual'è stata la cosa peggiore?" Esito. Ho avuto molto tempo per pensarci, forse troppo, arrivando a contare una buona dozzina di 'cose peggiori'. Nella mia personale hit-parade ce n'è una che è di sicuro la più dolorosa. Il fatto è che non riesco a parlarne. Tranne che a me stesso. Glielo spiego.
"Fai finta di parlare a te stesso." Risa di pubblico preregistrate come in una sit-com.

Padova.

Come i balbuzienti, uso canzoni per far uscire parole che s'incastrerebbero tra la gola e i denti. La cosa peggiore. "Sometimes I think you want me to touch you, how can I when you build the Great Wall around you?" A volte penso che tu voglia che io ti tocchi, come posso se costruisci la Grande Muraglia attorno a te? L'una, le due di notte di sussurri al telefono. Ansie, dolore, lacrime senza sinallagma.

Stanghella.

Viene fuori, simpatica e piacevole come una scheggia conficcata nella carne. La cosa peggiore. Abbracciare, accettare, assorbire il flusso costante di dolore e comprendere che tutto il mio amore non era di alcun, neppure insignificante, conforto. Inutile. Inutile. Inutile.

Rovigo.

Stufo di autostrada, imbocco la rampa, pago col bancomat, seguo la segnaletica. Scivolo a fianco dei paesini sulla statale. Polesella, Garofolo, Canaro.

Ferrara.

Dopo i buskers è tornata la città addormentata di sempre. Percorro strade deserte al punto da sembrare il set di un film catastrofico, i semafori assurdamente accesi che alternano le loro luci senza altri veicoli in giro oltre a quello del sottoscritto.

Casa.

A tutti quelli che mi dicono che non mi manca niente.
Chiudo la porta a chiave. E il mondo sta fuori.

impact

Questi giorni sono un po' come giocare a "Campo Minato". Basta un solo passo falso e il mio equilibrio viene giù con un tonfo.

In macchina, coi fari che tagliano il buio di via Comacchio in direzione di Ferrara, sussulto all'apparire di una lepre. La bestiolina è lanciata in uno scatto olimpico che, pur essendo mirato a portarla sul lato opposto della strada, è destinato invece a condurla sotto i mei pneumatici. Impreco tra i denti certo di non riuscire ad evitare l'impatto, ma ecco che l'istinto di sopravvivenza della lepre prende il sopravvento, sotto forma di un agilissima piroetta che la riporta in salvo al luogo d'origine. Sollievo. Poche centinaia di metri dopo, il cartello di Bivio Medelana.

[flashback: ore 13.00 - percorro la stessa strada in direzione opposta quando, come in un episodio di The Twilight Zone, dalla segnaletica scompare misteriosamente Comacchio. Il suo posto è preso da Adria. Che è di certo un posto in cui mi piacerebbe tornare, ma essendo atteso al Lido di Spina non vorrei che, oltre che dalla segnaletica, Comacchio fosse stata eliminata anche dalla geografia (in quanto a questo ho un paio di amici che, al contrario, ne gioirebbero). Proseguo dunque per Adria giungendo puntualmente a Comacchio. Unica segnalazione il cartello d'entrata in città. A volte mi prende questo intenso desiderio di fare qualche domanda ai funzionari dell'A.N.A.S.]

Spengo l'autoradio. Ho cantato in duetto con Jeff Lynn un discreto repertorio. Ora, mentre mi si apre la mente ad accogliere la meteora che mi insegue da questo pomeriggio, ho bisogno di silenzio. Per qualche ragione sono braccato da colpe già espiate. Ed è come avere i loro fari alle mie spalle, il loro paraurti attaccato al didietro della mia auto. Non posso frenare o rallentare perchè ne seguirebbe un urto micidiale.

Accelerano. Sento la botta, la vibrazione sul volante. Mi sento morire.

E non è solo questione del conto della carrozzeria.

bye bye addiction?

In solitudine, quando si è espettorato in qualche modo il grosso rospo maledetto che ci vive tra lo stomaco e la gola, si possono trascorrere anche degli ottimi momenti. Magari trasformando una giornata che stava segnando un punteggio molto alto sull'inutilometro in qualcosa cui guardare e annuire, pensando a quando si potrebbe replicare.
Forse davvero mi sto liberando di un'assuefazione. Per lo meno mi rendo conto di attraversare fasi che ricordano la disintossicazione.
Comunque dopo una sveglia eccessivamente mattiniera (per essere Domenica), ho dissolto l'inevitabile malumore assieme al detersivo nella lavatrice. Non che ami particolarmente le faccende di casa, ma a volte esse giungono opportune ad elidere stati umorali non graditi.
I miei sono tornati ieri da Falcade e avevano per me i soliti regalini, che mi hanno dato oggi a pranzo. Boccettini per il sale e il pepe (e stuzzicadenti) di ceramica a forma di orsetti.
Appena aperta la scatola con stampigliate sopra le immortali parole "Made in China", mi sono sentito un po' disorientato. Orsetti. Ho sollevato lo sguardo con in mente un po' di sarcasmo sul fatto che il perdurare della mia condizione di single non denota neccessariamente ch'io sia gay. Però il fastidio è svanito appena ho notato i brillantini negli occhi di mia sorella, da cui era partita l'iniziativa orsetti. Okay agli orsetti, allora. Sono veramente graziosi, anche se non li metterei mai in tavola per un'occasione ufficiale, e sono certo mi procureranno un bel po' di sputtanamento. Ma sono anche certo di poter placare il tutto col secondo regalino, una bella bottiglia di grappa ai mirtilli... fa gola a me che sono astemio!
Nel frattempo l'afa è fuggita a gambe levate.
Così oggi ho lasciato i film nella tv, e mi sono preso sù e portato al parco con lo zainetto pieno di libri e musica. Non sapendo bene riconoscere il nuovo umore che mi si era appoggiato addosso per un poco sono stato indeciso su che libro portarmi dietro. Alla fine ho portato tutto. L'ultimo di William Gibson, "La notte del Drive-in" di Joe Lansdale (iniziato e interrotto a causa del tono comico che fa a pugni con la violenza inscenata, ma sempre con la curiosità di sapere come diavolo vada a finire), le commedie di Harold Pinter (volume secondo, il primo l'ho perso nel trasloco, boh?), un manuale di fotografia a 35mm e l'ultimo numero di Applicando. Stessa cosa per la musica. Due punto sessantasei giga di file nel lettore mp3, comunque, non mi hanno lasciato a piedi.
Mi sono trovato un angolino nuovo, all'ombra, e ascoltando una delirante compilation che vedeva fianco a fianco Bauhaus e Bryan Adams, i Cure e i Cardigans, Edie Brickell e Norah Jones, Simple Minds, Ozzy Osbourne e Pat Benatar, ho dormicchiato sfogliando pigramente la mia rivista, ricaricando le pile lontano dalla rete globale di cui leggevo nelle pagine di William Gibson.
Fatti un po' di conti, quest'oggi ho fatto molto poco. Ma a volte la differenza è data da ciò che non si è fatto. E ciò che non ho fatto oggi è stato appiattirmi il cuore con una pialla di cattivi pensieri.
Per il momento è meglio non ufficializzare, ma forse sono davvero passato alla fase "non così male". Boh?

sleeping city

Nel mio inquieto peregrinare per la città dormiente ritrovo vecchie certezze come monetine tra le fessure dell'acciottolato. L'immutabilità metafisica delle vie, delle persone, diventa quasi rassicurante.

Via Mazzini, coi suoi muri appena ristrutturati e già scrostati, è la mia rampa verso l'oblio. I palazzi che si protendono prospettici verso il cielo, infiniti. i ronzii delle biciclette, alcune dal suono fluido e ben oliato, altre faticoso e stridulo. La luce liquida delle vetrine di Mel Bookstore, sui cui scaffali la sobria copertina di "Perchè Ferrara è bella" mi dà una raspata al cuore come se l'avessi inavvertitamente appoggiato alla ruota di una mola.
Il bruciore è di un'innegabile fisicità su cui mi soffermo a riflettere. Poi smetto di riflettere del tutto, e mi concedo alla semplice osservazione.

mel

Consideriamo un albero. Può, sapere che quell'albero pesa tot quintali, che è formato da tot molecole, che nelle sue vene scorrono tot litri di clorofilla che colorano n foglie del formato tale, può, dunque, sapere tutto questo, spiegare perchè dormirci sotto è tanto piacevole?

La razionalità è una difesa triste. Ho bisogno di una sana dose d'insania.

15/8

Ecco. Come in una canzone di Tori Amos, l'estate dell'82, dell'84.
Corse sulla spiaggia spellandomi le piante dei piedi. Gelati al chiosco. Compiti per le vacanze.
La bionda che mi sorride, portando a spasso il cane.
L'acqua del mare che mi cinge in un abbraccio delizioso. Mentre mi perdo, per sempre, nei miei sogni.
Da allora non ritrovo la strada di casa.

Cammino per le strade semideserte della città. Sera mite, per una volta non soffocante. Il mio riflesso indugia su qualche vetrina mentre soppeso con gli occhi un nuovo equilibrio. Mi fa paura, questo silenzio alternato al frastuono assordante. La mia voce non è mai stata tanto sospesa. O deserta bellezza di Ferrara, cantava D'Annunzio, loderò le tue vie piane, grandi come fiumane, che conducono all'infinito chi và solo col suo pensiero ardente.

Il mio pensiero ardente.

Ne ho bisogno. Per sopravvivere.
E tutti continuano a gettarci sopra secchiate d'acqua gelata.

A volte desidero pronunciare parole solo per sentire ancora il loro suono sulle labbra.
Che importa se non avrò più alcun bacio? L'importante è la salute, no?

nostalgia

nostalgia


I'm cutting branches from the trees
shaped by years of memories
to exorcise the ghosts
from inside of me.

Le cesoie in mano per uniformare ben bene i lati della siepe. Cadono, i rami ai miei piedi, le foglie che calpesto senza soffermarmi sullo spiacevole scricchiolio.

zac zac

Via!

Al diavolo tutto.

intermission

E' qualcosa nel sangue, credo.

Non ho trascorso quaranta giorni e quaranta notti di veglia e digiuno nel deserto. Non sono rimasto chiuso in una tenda invasa dal fumo. Non ho fatto uso di droghe o abusato di alcool.

Eppure il file risulta creato il 15 dicembre 1997, alle ore 8.56. Ma io so di aver solo ricopiato il testo da uno dei miei "giornali". L'idea per un romanzo (breve) o un (lungo) racconto. Pendente più verso il racconto, penso. Ma poi, che ne sò, io? Niente. Infatti non è diventato nè l'uno nè l'altro. Mi immagino davanti al Mac - e non c'è dubbio che fosse un Mac, dato che non ho mai usato altro, solo che non ricordo se si trattasse del performa 630 o l'LC II, e per qualche ragione che mi sfugge nella mia testa il dettaglio pare importante. Boh? Forse ai fini della datazione... -, dunque mi immagino davanti al Mac che m'immagino di scrivere chissà quale capolavoro. E scrivo questo attacco in prima persona - un Io Narrante, insomma -, il protagonista che rincasa, deposita soprabito e cappello, si abbandona al buio sul divano e sorride, con un nodo alla gola, del messaggio di sua madre alla segreteria telefonica. Accende la televisione, salvo poi spegnerla subito, respingere una blanda ma pericolosa fitta di tristezza, andare alla scrivania e sedersi davanti al Mac. E non scrivere niente.

Niente.

S'abbatte mortificato e sconfitto sul divano. E dopo un po', con movimenti così automatici da non rendersi conto di quanto sta facendo, prende il telefono e compone un numero. All'altro capo la calda voce di una giovane donna che lo riconosce, felice di sentirlo. Voce e parole che fanno immaginare un sorriso abbagliante, occhi brillanti e giocosi. Fanno desiderare di vedere, di ammirare, di ricambiare le carezze al cuore di questa giovane donna generosa.

E alla fine...
anzi no, non alla fine ma
improvvisamente ad un certo punto,
sempre con quell'ardente strozzatura in gola che gli rende la voce un sussurro stentato, la interrompe. La chiama per nome. I nomi hanno magia, un potere quasi sovrannaturale. Evocano, legano le persone, ai pensieri o ad altre persone. Ha la sua completa attenzione, ora, perchè ha usato il suo nome e lei sa che le prossime parole saranno importanti. E lui pronuncia quelle parole. Dice: "Mi racconti una storia?"

E a questo punto è chiaro - più che chiaro - quale sarà la continuazione di questa storia in cui un cantastorie ammette di non saperle cantare. Tanto rumore per nulla. Tanto sforzo per un qualcosa che non c'è. Devo solo trovare il coraggio di mettere una dietro l'altra le lettere che compongono la parola. Ci provo.

E' più facile di quanto pensassi.
Eccole.

FINE

swings and slides

Parco Massari con un libro.
L'ultima volta che ci sono stato risale al settembre del 2000, assieme a mio padre che mi vegliava, fermo ma premuroso come solo chi è passato attraverso le stesse esperienze e conosce le perfidie della convalescenza di un infartuato può essere. La mollezza delle gambe. Quella dello spirito.
Allora scegliemmo la prima panchina all'ombra disponibile. Io ansimavo per lo sforzo, per la drammatica riscoperta dell'assioma incontrastabile della fragilità umana. E mio padre scherzava e mi sfotteva, come al solito, un po' pesante, sempre come al solito. Dissimulatore dieci volte migliore di me.
Oggi percorro in bicicletta tutto il perimetro del parco, in una morbida curva attenta, soppesando con gli occhi gli spazi, renderizzando inconsciamente il panorama alla luce dei ricordi e deile immagini di vecchie filmine in super8 di me a quattro anni. Mio nonno, morto meno di un anno dopo, che mi cala nella carlinga di un aereo da caccia della seconda guerra mondiale, ancorato al suolo lì dove ora c'è un'aiuola spellacchiata. Il bar con il pois di tavolini sul prato secco si dissolve nel recinto delle caprette. Risorgono gabbie rugginose contenenti scimmiette puzzolenti e pappagalli stinti.
Panchina libera. La dolce curva attraverso lo spazio-tempo termina nella nuvoletta di polvere sollevata dalla mia frenata. Mi stendo con lo zainetto sotto la testa, apro e finisco il libro, mentre mi giungono gli schiamazzi lontani e dolci dei giochi, come provenienti dei miei ricordi. Le altalene, le ruote. Gli scivoli. Così alti, luccicanti, roventi sulle gambette che fuoriuscivano dai calzoncini corti. Le scarpe da tennis che frenavano, sfregando, la discesa. Ma tenendo i piedi in poco sollevati si andava giù come fucilate, toccando terra increduli che il divertimento potesse essere così incredibilmente breve, fugace. Per questo s'indugiava alla partenza, nonostante le cosciette sfrigolassero sulla lamiera incandescente, le mani che fingevano di dare la fatale spinta in avanti due, tre, cinque, dieci volte. E poi si andava. E subito si arrivava. Lo sbuffo di polvere delle scarpine al suolo.
Eccomi che scendo, veloce come una pallottola.
Sto arrivando. Sto arrivando.

oh shit

Piovono pietre.

Citando Oscar Wilde, la sensibilità è quella cosa per cui uno, con la scusa che ha i calli lui, pesta i piedi a tutti gli altri. Ecco la ragione per cui, quando preso di mira, a torto o a ragione, dal fato o da qualche ignaro persecutore, la mia prima reazione è: "Oh, cazzo..." seguita da un rapido dietro-front.

Ma il fatto è che quando uno sta male, e dico veramente male, e gli franano addosso macerie di case che puntellava disperatamente da anni, i luoghi comuni sono in qualche modo di conforto. Così sedimentati da secoli di sofferenze altrui, per cui caderci sopra è un po' come rimbalzare sulla rete sotto i trapezi, al circo. Sì, d'accordo, sei caduto comunque. Ma c'è qualcosa che attutisce il colpo.

Il cuore sanguina, il mondo crolla o ci casca addosso...

[aggiungete voi altre banalità che vi vengono in mente]

do we all believe in summer?

L'estate... è come la donna della propria vita. Non si può vivere con lei, nè senza di lei.

Un uomo cammina per strada. Lo fermo e gli chiedo se per lui sono vero. Mi guarda piuttosto perplesso, e non gli do torto. Con un sorriso mormora un timido "si" poi si allontana, voltandosi un paio di volte a guardarmi.
E io lo guardo allontanarsi, ma in me non è cambiato nulla. Nulla. Sento addosso come un cappotto la stessa sensazione d'irrealtà di sempre. Il personaggio di un romanzo. Guidato. Sballottato da un autore che non sà cosa farne.
Quest'impotenza snervante, soffocante, davanti alla vita che scorre fuori dalle mie finestre. Anzi, dentro i finestrini di un treno che mi passa sferragliando davanti senza fermarsi. Le carrozze che sfrecciano senza concedermi un appiglio. Le facce che appaiono un istante, quasi subliminali, e passano oltre. Frastuono, frastuono, frastuono.

wish list

Cose da fare durante le proprie ferie:

a) riposarsi;
b) rilassarsi;
c) leggere;
d) scrivere;
e) stare un po' all'aria aperta;
f) dedicarsi a qualche salutare attività fisica;
g) vedere qualche bel film;
h) socializzare.

Ripetere indefinitamente da a) ad h) anche senza un ordine preciso.

Cose da non fare durante le proprie ferie:

a) pensare;
b) cercare una giustificazione alla propria vita;
c) non trovarla;
d) evitare di uscire;
e) evitare di socializzare;
f) pensare;
g) pensare;
h) pensare.

ferie

Giornata ai massimi livelli dell'insulsità (si può dire insulsità? no? peccato, rende bene).
Dopo essere sopravissuto alla notte e a un principio di congelamento, vago per casa in pigiama come uno spettro disorientato dal fatto di non aver portato le catene.
Non ho quasi chiuso occhio, e dopo aver fatto colazione commetto il fatale errore di coricarmi di nuovo con un libro. Mentre volto pagina credo di sbattere le palpebre, e quando le riapro è la mezza. E io che non sapevo come trascorrere la mattinata. Le cose si sistemano sempre da sole, a quanto pare.

Nel pomeriggio scribacchio un pochino, poi mi viene il tìcchio di andare a comperare un certo porta cd che ho visto giorni fa in un grande magazzino, che giudico perfetto per il mio salotto. Già che ci sono prendo pure una mensolatura a colonna in design, sempre per il salotto. Riporto tutto a casa e assemblo l'assemblabile (la mensola). Effettivamente ci stà da Dio.

Quindi mi deflagro sul divano e, casualmente, mi capita il telecomando in mano. Gira che ti gira, piombo su sky cinema mentre un aereo atterra da qualche parte sulle note di London Calling. Un secondo dopo scopro che il passeggero è James Bond! Possibile? Sì, sì, è proprio lui! Il mio dito vince la paresi dello sconcerto e cambia canale.

Torno al computer e smanetto un po' prima di cena.

Ahhhh, il dolce far niente!

sigh... sigh... sighientu

Non è stupefacente questo concatenarsi di eventi apparentemente senza senso? Questo recidere ogni nesso di causalità, e poi stupirsi delle peculiarità degli attimi, delle combinazioni impossibili che si manifestano sotto i nostri occhi, come questa mia improvvisa e straordinaria immunità al caldo e all'afa dopo aver speso una follia per l'impianto dell'aria condizionata?

E così finisce che una giornata che tutto sommato sarebbe potuta anche diventare passabile diventa un boccone di traverso, con annesso rischio di soffocamento. E tutto a causa di un volantino di Mediaworld infilato nella buchetta dei miei.

Grazie al quale vengo a sapere che la stampantina a sublimazione che desideravo tanto è lì che mi aspetta, in... [glissato d'arpa] "offerta" [con undici effe].

Mi avvicino al banco del digital imaging e scopro, non senza raccapriccio, che una hostess dà dimostrazioni del marchingegno. Ovviamente conosce la lezioncina a memoria; ogni mia domanda tecnica non provoca che una breve, e un po' stizzita, interruzione della sua performance, subito ripresa. Poco male, so già tutto (tranne che il dock non è compatibile con la digitale che ho acquistato a Natale, e che potrò stampare solo da computer, ma questo lo scopro solo in seguto, e non è tanto importante), e mi lascio fotografare dalla pulzella. E' in offerta anche la macchina che usa per la dimostrazione, ed è ovvio quello che si vuole dimostrare qui: che può essere usata con ottimi risultati anche da un inetto totale. Mi convince completamente... peccato che abbia già la mia digitale.

Comunque, nell'offerta è compresa una bottiglietta da mezzo litro di acqua minerale, per ricordare che l'uso dei prodotti digital imagin kodak è (complimenti ai ragazzi del marketing, complimenti davvero) "facile come bere un bicchier d'acqua", oltre ad un buono sconto per un soggiorno in qualche villaggio vacanze di un tour operator di cui mi viene consegnato l'elegante e patinato catalogo.

A casa, nonostante la scoperta dell'incompatibilità della mia macchinina col dock appena acquistato, installo e stampo in un batter d'occhio magnifiche foto del mio nipotino preferito. Tutto gongolante m'appresto a mettere ordine tra accessori e imballaggi quando il mio occhio cade innocentemente sul catalogo.

Se questo fosse un film horror cercherei di rendere l'anticipazione inquietante con un dettaglio del catalogo sulla mia scrivania, magari ripreso con un teleobiettivo che ingrandisca e avvicini drammaticamente l'immagine in secondo piano (leggermente fuori fuoco) del sottoscritto che vi si avvicina, si avvicina cautamente, e allunga la mano per poi fermarsi inspiegabilmente. Quindi un bel primo piano del sottoscritto con occhi spiritati e il respiro affannato per l'apprensione. Poi controcampo sul catalogo, su cui è sospesa l'ombra della mia mano esitante. E dopo un nuovo primo piano del sottoscritto, in cui si vede la determinazione all'azione, un nuovo dettaglio del catalogo, o meglio, della scrivania da cui il catalogo scompare, afferrato dal sottoscritto, uscendo di campo. Rimarrei sulla stessa inquadratura, comprendente anche il sottoscritto più o meno all'altrzza della cintola, con il sommesso frusciare delle pagine sfogliate fuori campo. E terminerei in un urlo agghiacciante, e un rallentatore del catalogo bianchissimo che cade al suolo, inseguito da un furioso arpeggio d'archi... manco fosse il Necronomicon...

Invece (ed è proprio qui ciò che mi sconvolge della vita: quel suo modo insopportabile di vestirsi d'impoeticità, i modi più comici con cui usa inscenare i suoi drammi, grandi o piccoli che siano), invece, dicevo, grattandomi rudemente il posteriore, scottato poco prima dai roventi sedili in pelle della mia auto lasciata troppo al sole, senza sollevarlo dalla scrivania apro con leggerezza il catalogo ad una pagina a caso ed ecco la giornata prendere una piega diversa.



Una bella foto dell'hotel Sighientu. [Merda] E la bassa catena dei Sette Fratelli sullo sfondo. [Merda, merda]

Ma si può? Si può sentire ancora il cuore che sprofonda nel petto dopo tanto tempo? Un posto che ho solo visto, poi, anche se è stata l'ultima cosa che ho visto della Sardegna. L'ultima colazione, al bar della marina di Capitana. L'aria fresca del mattino. Lo sciabordìo dolce dell'acqua nella piccola darsena, che potevo sentire persino io. Io e lei che affettavamo indifferenza, camminando lungo la palazzina ben ristrutturata di cui ora ho la foto sotto gli occhi.

Come si fa a dimenticare se tutto cospira per riportare il dolore a galla?

E la prossima volta potrei anche lasciare il volantino nella buchetta dei miei, ma cambierebbe qualcosa?

Se solo riuscissi semplicemente a vivere...

devil's prey

Rovistando fra i dvd in offerta mi capita in mano una custodia sottilissima. Grafica accattivante, anche se non proprio eccelsa, prezzo € 5,00, titolo "Devil's Prey". Bè, è una spesa che posso permettermi. Non può essere altro che una boiata galattica, percepisco le emissioni negative attraverso la custodia di plastica. Non chiedetemi come faccio, è così.
A casa scopro che il solito mini black-out (ora già terminato) ha impedito l'accensione del condizionatore all'ora programmata. Lo accendo con stizza mentre tento di contattare il mio oculista, che ovviamente non è in ambulatorio.
Ceno con un toast e mi piazzo davanti al portatile per "lavorare" un po'. Non passa un quarto d'ora che sono già disgustato dalla mia totale carenza di concentrazione. Giocherello un po' con la confezione del nuovo dvd. E alla fine, nonostante i buoni propositi, strappo il cellophane e metto il disco nel lettore.
Trascorro la successiva ora e mezza con un sorriso compiaciuto sulle labbra. E' una schifezza, okay. Una regia d'un piattume irrimediabile che cerca di dar forma a una sceneggiatura imbarazzante. Ma mentre sogghigno sotto i baffi capisco anche il perchè di questo acquisto. Per tirarmi su. Per darmi una sferzata. Le immagini scorrono, io correggo mentalmente i dialoghi per renderli più efficaci, più utili, meno ridicoli. Le immagini scorrono, io capisco come usare i mille luoghi comuni incontrati nella prima metà del film per rendere sconcertante la seconda metà, che invece è così tristemente prevedibile che posso andare tranquillamente a fare acqua e tornare sapendo con precisione cosa sta per accadere.
Insomma, è davvero una schifezza. Quanti soldi sono stati spesi per produrre quest'orrore di film horror? La risposta a questa domanda è la sferzata che cercavo. Una vocina petulante continua a cantilenarmi nelle orecchie mentre scorrono i titoli di coda, e dice: se sai di poter scrivere meglio di così allora perchè non lo fai?
Ho capito, ho capito...
...ecco, ho lanciato Final Draft, contento?

to run into a wreck

Può darsi ch'io abbia avuto un'illuminazione, quest'oggi, rincasando dall'ufficio, zigzagando tra gli eterni cantieri stradali, uscendo dalle irrefrenabili traiettorie dei tir all'ultimo secondo disponibile, in mezzo al pendolarume spicciolo cittadino che rischia orrendi sinistri in sorpassi azzardatissimi, salvo poi inchiodare inspiegabilmente davanti a un semaforo verde.
Lì, correggendo costantemente la rotta per evitare di trovarmi rinchiuso in una gabbia di lamiere contorte e fumanti, la percezione di un pericolo così contingente m'ha afferrato e ho capito una cosa assai importante: che è davvero come fossi reduce da un tremendo incidente.
E' davvero come mi fossi trascinato fuori dai rottami fumanti della mia vettura, e rimessomi faticosamente e stentatamente in piedi iniziassi ad esaminare me stesso per inventariare i danni. Iniziassi toccandomi il collo, e al contatto una fitta tremenda mi facesse tremare in preda al dolore e alla nausea. E poi provassi con la spalla sinistra, ottenendo lo stesso risultato. Quindi col braccio, altra fitta. E poi, sempre più preoccupato, mi toccassi il torace, e che qui il dolore fosse tanto intenso da farmi quasi svenire. E il medesimo risultato ottenessi toccandomi lievemente entrambe le ginocchia. Ma che alla fine capissi per puro caso l'assurda, potrei dire comica, verità. Che tutto ciò che ho toccato è sano e incolume, ed è la mano che l'ha toccato a dolere così tanto.
E mentre parcheggiavo sotto gli alberi in Piazza Ariostea, e scendendo dall'auto vedevo i giovani scambiarsi allegramente un pallone sull'erba, le coppie che amoreggiavano sulle panchine, le famiglie che passeggiavano degustando invidiabili coni gelato, gli anziani comunque eleganti pedalare contromano sotto il sole, ho capito perchè tutto, tutto ciò, mi duole insopportabilmente negli occhi e nel petto. Ed è perchè cerco di toccarlo col mio cuore tumefatto.

pain before, pain after, pain within

Non so dove sto andando.
L'estate.
L'estate mi corrode, con tutta la sua insopportabile dolcezza. Sento la pelle che si dissolve al soffio dell'aria tiepida. Di me non resteranno che gli occhiali.

Che ironia sopravvivere a un'estate per soccombere alla successiva.

Come il personaggio di un romanzo mai scritto scoperto a praticare a se stesso lunghi, sottili, dolorosi tagli sulle braccia con un affilato coltello, e che alla domanda:
"perchè fai questo?" risponda:
"Per sentire. Per sentire qualcosa."

redhead wanted

Ieri sera ho creduto di vedere la donna rossa.
Ero in un ristorante con alcuni amici, seduto ad un tavolo all'aperto. Mentre ci facevano accomodare parlavo con un amico, che m'informava sugli ultimi sviluppi cinematografici, e non prestavo molta attenzione agli avventori già presenti.
Una volta seduto, passando il menù all'amico alla mia sinistra, con la coda dell'occhio ho intravisto una massa di capelli ondulati rossi che adornava una ragazza ad un tavolo dietro di noi. E subito la mia attenzione ha avuto un picco.
Unico problema, rispetto alla mia posizione la ragazza si trovava a ore otto, ed ebbi non poche difficoltà ad osservarla con la discrezione che desideravo. Ma, senza perdermi d'animo, ho iniziato una cordiale discussione con chi mi sedeva accanto, e ho lentamente raccolto informazioni senza bisogno di far altro che spostare leggermente gli occhi alla sinistra del mio interlocutore.
Ma era lei?
Carina era carina. Indossava una camicia blu su dei pantaloni attillati un poco più chiari, che le arrivavano poco sotto il ginocchio, e dei sandalini col tacco basso. Il viso dai lineamenti sottili, il naso appuntito e gli zigomi affilati era intrigante. La carnagione di quel rosa tipico delle rosse che hanno preso un po' di sole. L'aspetto complessivo era piacevole ed elegante. E ciò era accentuato dalla sua postura e dal suo modo pacato di muovere le mani mentre parlava con i suoi commensali.
Ma era lei?
Non lo credo. A parte la difficoltà dovuta al fatto di non aver mai visto bene il volto della donna rossa dei miei sogni, sono vieppiù convinto che, ammesso che esista nella vita reale, se mai mi capitasse d'incontrarla non riuscirei a non riconoscerla. La sua è una presenza troppo forte per essere ignorata. E soprattutto da me che, sebbene in sogno, l'ho avuta per amante.

Come dite?

Okay, okay... domani vado da un analista.

"The Real Folk Blues"

INT. PONTE EQUIPAGGIO DELLA BEBOP - NOTTE
Jet dorme, sdraiato su una branda nella penombra.
Si desta lentamente, percependo qualcosa nell'aria. Si rigira sotto la coperta.
Sull'altro lato della cabina vede Spike, in piedi nel buio intento ad osservarlo in silenzio.
Allarmato, Jet si mette rapidamente seduto.

JET
Spike! Ma tu da dove...?

SPIKE
(sorridendo)
Hai qualcosa da mettere sotto i denti? Sai, ho una fame da lupi.

Stacco su:
IL VENTILATORE A SOFFITTO
che gira mentre si ode lo sfrigolare del cibo sui fornelli.

Stacco su:
UN PIATTO DI UN CIBO NON IDENTIFICATO
Le bacchette cinesi pescano nel piatto un po' di roba verde ed escono di campo.

PP: SPIKE
porta le bacchette in bocca e mastica, un'espressione indecifrabile sul volto.

PP: JET
guarda mangiare l'amico sorridendo, la sigaretta fumante tra le dita.

INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
Spike è seduto al tavolo, dandoci le spalle, Jet invece siede poco lontano, sulla passerella che porta al ponte superiore, rivolto verso di lui.

SPIKE
Come al solito la roba che cucini tu fa veramente schifo...

JET
Da come ti stai ingozzando non si direbbe proprio.

SPIKE
Per riempire uno stomaco vuoto va bene qualsiasi cosa.

PP: JET
Jet sorride. Apre la bocca, come per voler replicare con un'altra battuta, ma poi si trattiene.

SPIKE (off)
Ti racconto una storia.

Jet è visibilmente sorpreso dalle parole di Spike.

Stacco su:
IL PIATTO VUOTO
sul quale Spike appoggia di traverso le bacchette cinesi.

SPIKE (off)
C'era una volta un gatto...

INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
90° dall'inquadratura precedente. Jet di spalle, Spike più in basso, seduto al tavolo, che parla tenendo lo sguardo davanti a sè.

SPIKE
...un po' speciale. Nel corso dei secoli era morto e rinato più di un milione di volte.
Era stato allevato da generazioni di uomini verso cui non aveva provato che indifferenza.

PP: JET
Jet aggrotta la fronte, turbato. Si sporge di lato per spegnere la sigaretta.

SPIKE (off)
Non temeva la morte.

Stacco su:
PORTACENERE
La mano di Jet schiaccia la sigaretta finchè non è spenta.

PP: SPIKE
Continua a parlare e a tenere gli occhi un po' bassi, davanti a sè. Un sorriso stanco gli segna il volto, conferendogli una grande tristezza.

SPIKE
A un certo punto decise di diventare un libero gatto randagio.

Stacco su:
INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
Dall'alto, tra le pale del ventilatore che girano pigramente nell'aria, vediamo i due amici sempre seduti immobili ai loro posti. Spike parla, Jet ascolta.

SPIKE
Incontrò una bella gatta bianca, e vissero insieme felici e contenti. Passarono gli anni, e la sua candida compagna, ormai vecchia, si spense. Lui la pianse per più di un milione di volte, poi la seppellì... non rinacque più.

PP: JET
Jet sorride, un po' imbarazzato.

JET
E' una storia molto bella.

SPIKE (off)
La odio con tutto il cuore.

Jet, stupito, solleva lo sguardo sull'amico.

PP: SPIKE
Spike sorride, guardando Jet dal basso verso l'alto

SPIKE
I gatti sono una cosa che non sopporto.

PP: JET
Anche sul volo di Jet s'allarga un sorriso.

JET
Oltre ai cani e alle donne!

INT. PONTE EQUIPAGGIO - NOTTE
I due amici ridono irrefrenabilmente per qualche istante.
Sempre ridendo, Spike si alza dal tavolo e s'incammina verso la passerella

JET
Senti Spike...

Spike si ferma, dandoci le spalle.

SPIKE
Si?

JET
Ti posso chiedere solo una cosa?

SPIKE
Che cosa?

JET
E'... per quella donna?

PP: SPIKE (di schiena)
Dopo un attimo di esitazione, Spike gira un poco la testa verso l'amico per rispondere, guardandolo di sbieco.

SPIKE
Non c'è nulla che si possa fare per una donna morta.

PP: JET
Jet sospira, affranto, passando la mano in testa, sulla pelata, mentre si sentono i passi di Spike salire la passerella e allontanarsi.

Stacco su:
INT./EST. BOCCAPORTO
Sempre dandoci la schiena, Spike cammina verso il boccaporto aperto, oltre il quale si vede il corridoio della nave attraversato dalle tubature.
Quando è sulla porta, una mano spunta da oltre la paratia, puntandogli una pistola alla testa.

FAYE (off)
(perentoria, minacciosa)
Dove vai?

Spike si volta verso la pistola.

Stacco su:

PP: FAYE
Tiene la pistola con decisione puntata verso di noi, uno sguardo deciso, severo, nei begli occhi scuri.

FAYE
Ma soprattutto, perchè?

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Faye ha il braccio teso, inquadrando Spike, tranquillo di fronte a lei con le mani in tasca, nel mirino dell'automatica.
Dopo un istante, Faye abbassa l'arma lungo il fianco. Tutto il suo corpo assume una postura che le dà un'aria disperata.

FAYE
(animandosi)
Una volta mi dicesti che il passato non era poi così importante.
Belle parole per uno che non riesce a liberarsene!!

Spike esita un istante, poi le si avvicina. Avvicina il volto a quello di lei, che presa di sprovvista indietreggia un poco e lo guada con stupore.

SPIKE
Guardami gli occhi...

Stacco su:
Dettaglio: GLI OCCHI DI SPIKE

SPIKE
Il destro è artificiale, quello vero l'ho perso in un incidente.

Si può ben distinguere la differenza di colore tra i suoi occhi.

SPIKE
Da allora con l'occhio sinistro registro il presente, mentre col destro ricordo il passato.
Mi ha insegnato che non sempre ciò che è visibile corrisponde alla realtà.

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Spike e Faye si fronteggiano.

-FAYE
Si può sapere che ti prende? Tu che non hai mai parlato di te stesso ti metti a fare certi discorsi proprio adesso!

SPIKE
Volevo continuare a vivere un sogno dal quale non svegliarmi mai.
(si interrompe un attimo e sorride, quasi divertito di se stesso)
Ma poi all'improvviso mi sono svegliato.

Spike passa accanto a Faye, dirigendosi verso la fine del corridoio immersa nel buio.
Faye si volta verso la paratia, prima di parlare.

FAYE
Io... ho riacquistato la memoria.

Spike si ferma, ma senza voltarsi verso di lei.

Stacco su:
I PIEDI DI FAYE
calzati negli stivaletti bianchi, rivolti verso la paratia.

FAYE
Ma... non ho trovato niente.

Stacco su:
LA MANO DI FAYE
rilassata lungo il suo fianco, che si chiude in un pugno disperato mentre parla.

FAYE
Non ho una casa dove riposare. Nessuno ad aspettarmi.

PP: FAYE
di profilo, attraverso i lisci capelli della ragazza vediamo la sua bocca che parla con amarezza.

FAYE
Ormai l'unica casa che ho è questa!

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Spike non s'è mosso. Faye è sempre rivolta verso la paratia.

FAYE
Spike... non andare... perchè vai?

INT. CORRIDOIO - DALL'ALTO
Finalmente Faye si volta verso Spike, che però continua a darle la schiena.

FAYE
Perchè vuoi andare se sai che morirai?

Spike sembra pensarci su, prima di rispondere.

SPIKE
Io non vado a morire. Ma solo a provare a me stesso se sono realmente vivo oppure no.

Stacco su:
SPIKE
che riprende a camminare verso di noi, verso il buio alla fine del corridoio.

Da sopra la sua spalla vediamo Faye che vince lo stupore, che solleva la pistola, dapprima puntandola alla schiena di Spike, poi verso il soffitto.
Faye stringe gli occhi e spara un colpo, che risuona forte nel corridoio.

CONTROCAMPO
Spike continua a camminare verso la fine del corridoio dandoci la schiena, mentre si sente un altro colpo di pistola sparato da Faye.

Stacco su:
LA PISTOLA
impugnata dalla piccola mano della ragazza, che fa fuoco ancora ed ancora.

Stacco su:
INT. CORRIDOIO - NOTTE
Spike è ormai in fondo al corridoio.
Faye non spara più, e anche se tiene sempre la pistola alzata all'improvviso è come se il suo corpo s'afflosciasse per la disperazione.

Stacco su:
GLI OCCHI DI FAYE
lucidi di pianto.

*****************************************
da "Cowboy Bebop"
- Session #26: "The Real Folk Blues" (part II)

black nightmare

Uno scrittore americano dedito prevalentemente alla sf mi colpì anni fa con un racconto intitolato "I colori dell'incubo". Tanto da farmi scrivere una risibile poesia dallo stesso titolo. Comunque il racconto era una serie di frammenti estremamente drammatici (non di fantascienza), dove la qualità dell'elemento disturbante illuminava ogni episodio di uno specifico colore. Il più angosciante penso che fosse l'incubo in grigio. In esso si seguiva un giovane uomo i cui propositi erano prendere in mano la propria vita. Era profondamente innamorato di una bellissima donna, e in cuor suo sapeva di essere ricambiato. Nella sua mente prendevano forma progetti per la sua vita felice, per la sua famiglia felice. Si percepiva l'immane forza delle sue aspettative, della sua voglia di vivere, di amare. Davanti al portone della casa del suo amore, un bel mazzo di fiori in una mano, bussava al colmo dell'eccitazione. Ma quando la porta si apriva, si trovava di fronte una bambina che dapprincipio non riconosceva e che, dopo uno scambio di battute confuse, esclamava verso il cuore della casa: "Mamma! C'è il nonno! Ha avuto un altro dei suoi attacchi!" E all'improvviso gli tornava in mente il necessario per capire. Riconosceva il suo corpo affranto dalla vecchiaia, il grigiore della sua pelle e quello dei suoi giorni a cui era negato il conforto dei ricordi. Aveva già vissuto, e non lo rammentava più.

Dico questo a causa di un breve black-out accaduto la notte scorsa, che mi ha colto impreparato durante la traversata del mio smisurato corridoio. A tentoni, ho raggiunto la camera da letto e il letto, sdraiandomi in attesa che tornasse la luce. Cosa che avvenne nell'arco di pochi minuti. Ma in quei pochi minuti ho rivissuto il mio incubo in nero.

Maggio dello scorso anno. Sento, dopo un lungo e comprensibile silenzio, La Treccia al telefono. Lotta per superare la fine della sua storia, anche la sua voce sembra piegata dalla sofferenza. Decidiamo di uscire a mangiare un boccone, e già nel proporre l'idea provo un'anteprima del senso d'impotenza che mi prenderà allo stomaco durante la cena. Però va fatto. Non mi tiro indietro, nonostante ormai io sia più che certo che tra breve, tra molto breve (e precisamente una settimana più tardi) anch'io avrò il mio bel dafare per rimuovere le macerie della mia vita sentimentale. Non mi tiro indietro, gli amici ci sono per questo.
Fa caldo per essere i primi di maggio. La raggiungo in strada davanti a casa mia, notando subito il suo pallore, il suo volto eroso dal pianto come una vallata carsica. Bacio, bacio. Per sdrammatizzare un po' azzardo una battuta sulla sua guida. Accenno alla sua auto, parcheggiata col muso nella direzione opposta a quella prevista, e dico: "stai migliorando! accidenti! in retromarcia fin da casa tua!" Non ottengo che un mezzo sorriso, e il cuore mi sprofonda ancor più nel petto. Sarà una lunga serata.
Prendiamo la mia auto, ma facciamo poca strada. Decidiamo di sederci ai tavoli dell'estivo di un locale su Viale Cavour. Non più di trecento metri da casa mia.
Si parla d'inezie per qualche minuto, poi, in quel suo modo così controllato, discreto, così deliberatamente trattenuto che farebbe infuriare chiunque non la conoscesse da anni, inizia a parlare di sè. D'improvviso, e nonostante la versione edulcorata, mi trovo a combattere contro la furia di un duplice maelstrom, e le sono grato per esserci andata piano, anche se non so se consapevolmente o meno. L'ascolto ma non ho consigli. Non ne ho per me stesso. La lascio parlare, e alla fine dice anche le cose che dovrei dire io. Fortunato bastardo.
Inevitabilmente mi trovo a dover parlare di me. Non vorrei, e per due buone ragioni. La prima è che sono di fatto ancora insieme alla cantantessa, e mi secca far la figura di chi si lamenta senza ragione. La seconda, perchè nonostante il disastro incombente e ormai inevitabile non ho alcuna voglia di arrendermi. Mi limito quindi ad un quadro prudentemente pessimista e la cosa sembra disturbarla. M'inonda di considerazioni sulla logica femminile, sull'emotività, sulla sessualità, di consigli che non capisce che non potrei mettere in pratica nemmeno se lo volessi, tanto sono estranei dalla realtà della mia relazione. Ha del tragicomico che questa ragazza così povera d'esperienza si senta di tenere lezione ad un veterano della catastrofe sentimentale solo perchè guarda sempre LoveLine su Mtv. Alcune delle cose che dice mi feriscono, per la loro inusitata cecità, ma comprendo anche che per lei è un tentativo di rivincita. Vorrebbe con tutte le sue forze che almeno questo rapporto sopravvivesse.
Docile, l'ascolto dosando l'attenzione nei miei occhi, annuisco con tempestività, mentre il mio cuore s'è ritirato in un luogo lontano e silenzioso, a mala pena raggiungibile anche da me stesso. Finchè, ai margini della mia coscienza, percepisco alcune parole ed è come sbattere il muso contro un vetro. Ritrovo la mia attenzione.
"...non devi mai dirle che hai paura di perderla!"
Si ferma e mi guarda, intuendo qualcosa dal mio viso. E io intanto vengo risucchiato da una mattina assolata, la luce che entra obliquamente nella stanza da letto dalla parete a vetro, la cantantessa e io, sotto le coperte, che immergiamo le mani ciascuno nelle lacrime dell'altro. E io che dico esattamente quelle parole. Esattamente quelle.
Leggo la comprensione negli occhi della Treccia, che si fanno d'un tratto gelidi e duri. Che sembrano dire, anzi, sembrano gridarmi in faccia: "Cos'hai fatto, maledetto stolto?! Hai rovinato tutto! Tutto!!"
Ci salutiamo davanti a casa mia. La guardo faticare col volante e poi mettersi bene in carreggiata. Ho una sete maledetta a causa dei pop-corn che ho mangiucchiato durante tutta la sera. Apro il frigo in cerca di un succo di frutta e improvvisamente l'oscurità cade su di me. Chiudo la porta del frigo e raggiungo a tentoni il balcone. E' buio. Tutto il quartiere è avvolto da un'oscurità primordiale e spaventosa. M'appoggio alla ringhiera, svuotato di me stesso. Il buio, il nero, il vuoto. Il mio destino.
Pausa pranzo al "Ciao" dell'Ipercoop.
Se c'è un Disegno Divino mi chiedo proprio quale sia. Soprattutto osservando la collega che fagocita il suo pranzo composto da pasta al forno, arrosto e patatine + verdure pastellate, fetta d'anguria e tiramisù. Oggi c'è andata leggera. La questione del Disegno Divino risulta evidente considerando il fatto che pesa quaranta chili (con tendenza al ribasso) nonostante la quantità di cibo che ingurgita, e io prendo peso al solo annusare dei profumi della cucina.
Dunque sono lì, che rumino la mia insalatina con i pomodorini, la rucolina, il radicchino nonchè vari altri vezzeggiativi, quando lei afforchetta qualcosa nel piatto, spalanca le fauci, e ve la getta dentro con nonchalance, emettendo, tanto per farsi ben volere, un mormorio d'apprezzamento tipo: "Mmmmmmmmmmmmhhmmm!!!!"
Dopo un attimo, però, il fragore assordande di tutta la fibra che sto triturando coi denti è coperto da un suono bizzarro, che non riconosco.
Alzo gli occhi. La collega sta soffocando.
"E' la nemesi" penso, dissimulando un sorriso in una smorfia. Ma nello stesso istante sono mezzo alzato dalla sedia, pronto per correre al suo soccorso.
Lei fa un gesto nervoso e rigido con la mano, che però potrebbe interpretarsi in due modi. Potrebbe voler dire: "stai calmo e seduto, va tutto bene, m'arrangio". Oppure potrebbe voler dire: "vuoi muoverti a darmi una pacca sulla schiena, CAZZO!!!"
Decido di agire comunque, non tanto per la morbida tinta bordeaux assunta dalla sua faccia in sè, che non è male. Ma, caspita!, fa a pugni con il colore della camicetta!
Non faccio in tempo. Prima di poterla, finalmente e legittimamente, picchiare, un inaspettanto e provvidenziale colpo di tosse le libera la trachea.
Riappoggio le chiappe alla sedia e la osservo in silenzio che respira profondamente con gli occhi chiusi, allontanando il panico.
Penso: "sarà sconvolta..."
Lei riapre gli occhi, sorride, afforchetta un altro qualcosa nel suo piatto e se lo spara in gola mugolando di piacere. "Che fameeee...!" aggiunge.
Insomma. Se c'è un Disegno Divino mi chiedo proprio quale sia.

empty house

Diana Krall mentre ceno.
La sua voce vellutata canta parole che mi danno un improvviso fastidio. "Cry me a river".
Cerco con gli occhi il telecomando dello stereo. Alla fine mi alzo e premo il dito sul pulsante On/Off quasi con rabbia. Cala il silenzio come una bastonata.
Basta.
Di nuovo seduto davanti al piatto, con la coda dell'occhio scorgo il telecomando fare capolino da sotto la fruttiera, che è pure vuota. Lo prendo in mano, tenendo ad un tempo l'angoscia per le corna. Che spinge, spinge. Mi sà che entro sera mi prenderò una bella incornata.
Cosa vuol dire tutto questo?
Ho lasciato l'altra casa ed ora sono in questa. E' più grande, più spaziosa, più luminosa. Ogni volta che mi dimentico qualcosa in una stanza mi tocca fare sto smisurato corridoio, che prima o poi mi comprerò dei pattini.

(pattini... trentadue anni fa mio padre solleva una scatola verde davanti ai miei occhi, nella medesima stanza dove mi trovo ora, a scrivere sul portatile mac del mio sconforto. Pattini. Mi dice che me li ha portati in dono la sorellina appena nata. Ottima mossa, papà.)

Farò causa ai traslocatori. Manca uno scatolone all'appello. Hanno dimenticato i miei sogni nel mio vecchio appartamento.

Il vuoto. Il vuoto.

gettin' in

L'accesso alla mia casina nuova (nuova perchè ci sto da poco, non certo perchè fresca di cantiere!) non è dei più facili. Di solito saluto i miei visitatori con un cordiale "benvenuti ad Alcatraz!" per via delle inferriate. Se non altro le ho fatte dipingere di un bel rosso vivace che, bisogna ammetterlo, assieme al verde della ringhiera del balcone e al bianco degli infissi, ha dato un involontario ma allegro tocco patriottico allo stabile (si preannunciano grane in condominio...). Comunque non dirò che è impenetrabile per motivi scaramantici. E le intaccature allo spigolo della porta d'entrata, sicure testimoniante di passati tentativi d'effrazione, mi servono da monito a non abbassare la guardia.

Dunque, da via Palestro si accede da una bella porta a vetri scuri posta tra il macellaio e il fruttivendolo. Ma di solito chi mi viene a trovare non aspetta di sentirmi raccontare tutta la faccenda, e perde un buon quarto d'ora facendosi a piedi in andata e ritorno i quattro piani dell'edificio principale, provando ogni porta e strabuzzando gli occhi su tutti i campanelli, prima di rinunciare, tornare in strada, suonare di nuovo, e gracchiare nel citofono: "ma dove c(beep!)o stai?".
E io: "attraversa il cortile, pollo!"

Si attraversa, ridunque, il cortile e, in fondo a sinistra, ci si trova davanti ad un nuovo portoncino, che il più delle volte avrò già provveduto ad aprire con l'apposito tiro. Sull'interno del portoncino si trova un cartello, assolutamente menzognero, che recita:
"Si prega di non sbattere. La porta si chiude da sè".
Potremmo definire l'apparato adibito alla chiusura del portoncino: "ad pompam".

Queste le principali reazioni al cartello bugiardo.

1) il coscienzioso:
mi raggiunge sul pianerottolo e dice: "Lo sai che il portoncino di sotto non si chiude da sè?"

2) l'irritato:
mi raggiunge sul pianerottolo ed esclama: "Quel c(beep!)o di portoncino di sotto non si chiude!"

3) il distratto:
mi raggiunge sul pianerottolo e gli chiedo: "Hai chiuso il portoncino di sotto?"
E lui: "Portoncino?"

4) mio padre:
SSSSLLAAAAAMMMMM!!!!!! (con vibrazione risonante nell'edificio dalle fondamenta al tetto)
Io: "Papà, sei sicuro di aver chiuso bene?"

4) l'ingegnere:
l'attendo invano per diversi minuti prima di sporgermi dal pianerottolo e vederlo scrutare accigliato a braccia conserte il portoncino semiaperto ma inspiegabilmente inerte. Continua a scrutare accigliato, probabilmente chiedendosi se è rotto o se è semplicemente molto moooolto lento, finchè non attiro la sua attenzione con: "Hei! Mica si chiude! Datti una mossa!"

Bè, poi si è arrivati.

*

...sono così stanco di non stare bene.

the rose + the picture

Con un dardo
o la spina d'una rosa
appuntata al cielo
come una foto
al muro


via sms


condomflag

Un po' più rincoglionito del solito, stamane esco di casa facendo roteare le chiavi della macchina attorno all'indice, infilato nel portachiavi. Raggiungo il mezzo, lo apro, mi siedo alla guida e avvio il motore. Pochi secondi per scegliere la colonna sonora del tragitto (che alla fine risulta essere Cowboy Bebop OST di Yoko Kanno), innesto la marcia e vado, mentre il mio tecnologicissimo vetro elettrico scompare nella portiera. L'aria m'accarezza il viso. Canticchio sul cd un pezzo dolce e swingatissimo. "Goodbye, so long, adieu..."
Sostando al primo semaforo, tre suore mi passano accanto lanciandomi severe occhiate di disapprovazione. Al verde riparto un po' perplesso. Penso: che non gli piaccia il jazz?

E' quando m'accorgo del preservativo svolazzante agganciato al tergicristallo.

farewell my lovely

Niente, non riesco a dormire.
Mi rivolto nelle lenzuola come una popolazione oppressa.
Cerco evasione nelle pagine di "Addio mia amata" di R. Chandler. Un grande.
Riflessione su Phil Marlowe: ogni sua storia di cuore non è che l'eco di un'enorme passione, di un gigantesco amore che non viene consumato. Mai.

E per un attimo mi sento meglio. Solo per un attimo, però.

Poi torno a letto.

rude awakenings

Nuovo sogno. Ma purtroppo la donna rossa questa volta non c'entra. Chissà dov'è, cosa sta facendo mentre la penso e, beh sì, la desidero. E' un po' alienante scoprirsi a fissare il vuoto pensando a qualcuno che probablimente non esiste.
Di una vividezza straordinaria, ma a cui sono abituato, il nuovo sogno s'è confuso con quello stato di veglia incosciente che è preludio del vero risveglio, rendendo il tutto ancora più incredibilmente reale.

Dunque apro gli occhi. Il sole filtra dalla finestra tagliando la penombra come un coltello. E' domenica mattina presto, lo capisco dalla qualità della luce, ma non mi secca essermi svegliato perchè posso richiudere gli occhi e abbandonarmi all'indolenza. Prima di farlo mi stiro lungamente, assaporando il tepore delle lenzuola, la morbidezza dei cuscini. Mi giro sul fianco destro e con gli occhi socchiusi e assonnati vedo P. che entra in camera da letto con passo silenzioso e un sorriso solare sulle labbra.
Sorpreso, torno a mettermi supino e la guardo. La luce dell'alba la illumina mentre si sveste, e mentre si sveste, riponendo con cura i vestiti, mi parla tranquilla e serena delle ultime cose che ha scritto, di come sono piaciute, di come vorrebbe migliorarle. Tanto che, dopo un attimo, il fatto che si trovi nella mia camera da letto mi pare come la cosa più naturale del mondo. Seduta sul bordo del lettone si sfila i pantaloni e continua a parlarmi, e sempre parlando li piega, li appoggia sulla cassettiera e infine si volta a sorridermi. Poi tace. Ora ha addosso solo una camicia bianca che la copre quasi fino alle ginocchia. Gira attorno a letto, s'insinua felina sotto le lenzuola e mi si fa vicina. Sento i suoi piedi che si avvolgono ai miei.
Mi giro verso di lei, avvicinandomi al suo viso. Allungo la mano per una carezza ma all'improvviso lei è come insensibile. I suoi occhi dilatati guardano avanti a lei, il resto del volto è una maschera indecifrabile e inespressiva.
"chi...?" dice.



Per un attimo non capisco, poi sento tutto il corpo che mi s'irrigidisce, il freddo che mi travolge, i capelli che mi si raddrizzano sulla nuca. Seguo il suo sguardo fino ai piedi del letto. Là c'è una ragazzina. Avrà dieci, dodici anni, ha capelli castani sciolti sulle spalle, occhi grandi, acquosi, ha addosso una camiciola da notte azzurra e ci guarda con tristezza infinita.
"chi...?" dice ancora P. e sento tutto il terrore nella sua voce, come lo sentirei nella mia se riuscissi a dire anche una sola parola. La sua mano si stringe alla mia al punto di dolere.
Chi? O cosa? P. ed io sappiamo bene che la bambina è un fantasma. Che vuole qualcosa da noi.
Vorrei agire in qualsiasi maniera. P. però non mi lascia andare, non sò se per il timore che mi possa accadere qualcosa o se semplicemente non vuole rinunciare a quel poco di sicurezza che il mio contatto le regala. Si stringe a me, sento i suoi piedi che scalciano in preda al panico, come se stesse nuotando disperatamente per tenersi a galla. Alla fine riesco a divincolarmi dalla sua presa, e lei inorridisce vedendimi uscire da sotto le coperte, ultima difesa.
Rimanendo sul letto mi avvicino alla bambina col cuore martellante. Sento P. che trattiene il fiato alle mie spalle. Lo spettro muove le labbra come se stesse parlando, ma non odo alcun suono, alcuna parola. Guardo quegli occhi profondi, profondamente tristi e all'improvviso mi accorgo che le mie gambe stanno spingendo, che sto compiendo un balzo in avanti, che travolgerò chiunque o qualsiasi cosa si strovi di fronte a me.
E lo faccio. I lineamenti della bambina s'avvicinano rapidissimamente e poi scompaiono. Sento un freddo mortale che s'impossessa di me, e un urlo agghiacciante nell'aria mentre ruzzolo sul pavimento.
E mi sveglio. Di soprassalto. Scatto seduto sul letto, gli occhi che cercano nella stanza, le vene che pulsano sulle tempie. Il sole filtra dalla finestra tagliando la penombra come un coltello. Dèja-vu. Aspetto per qualche minuto, respirando affannosamente. P. non arriva. Vado a prepararmi la colazione.

Dove sei, donna rossa?...

in between days

Sole tra le nubi
vento tra le foglie
sospiro tra i pensieri

dreams of a redhead

La donna rossa è comparsa di nuovo nei miei sogni.
Non sò chi sia.
La prima volta che la sognai avevo vent'anni, e al mio risveglio dovetti fare doccia e bucato. Non ricordo bene i dettagli del sogno, solo la sua carica erotico esplosiva, i lunghi capelli mossi rosso carota della mia amante onirica, la sua pelle delicata e diafana, le sue dita minute sul mio petto. Ma non il volto. Quello non sopravvisse al risveglio.
La seconda volta invece ero a due giorni dalla discussione della tesi. Nel sogno la riconobbi tra la folla di un locale alla moda, dalla quale la estrassi prendendola per mano conducendola poi da qualche altra parte non bene definita. Questa volta l'erotismo fu soppiantato da una singolare intimità. Forse ricordo un bacio, all'ombra di un porticato, e di sicuro una felicità che può trovarsi solo nei sogni. Nient'altro.
Può darsi ch'io l'abbia sognata altre volte, non so.
La notte scorsa è tornata.



Nel sogno mi trovo in un qualche locale nel bel mezzo di una ressa rumorosa, una selva di bicchieri multicolori. L'ambiente è un po' rustico, con vecchi mattoni a vista, mobili in noce scuro d'arte povera, tegami di rame appesi in vece di quadri. D'un tratto sento una voce familiare chiamarmi. Alzo gli occhi e mi rendo conto di un soppalco stretto, una specie di ballatoio, che corre lungo la parete più lunga della stanza. R***, una mia cara amica, in un abito da sera che non credo possegga veramente, si sporge dalla ringhiera agitando un braccio.
"Ehiiiiiii!" mi chiama con la sua consueta allegria.
Agito il braccio anch'io per farle vedere che l'ho vista.
"Vieni su!" continua. "Dài vieni! C'è una persona che devi conoscere!!"
Rimango un attimo interdetto. Una persona? Provo l'impulso di sgattaiolarmene via alla chetichella, ma svanisce subito. Cerco il modo di raggiungere il soppalco. Stranamente, non vedo scale. Rimango pietrificato quando scopro che per salire c'è una specie di percoso in arrampicata, con appigli metallici e incavi nel muro. Ma sono matti?! Per scrupolo provo a salire, ed è effettivamente difficile come sembra. Dopo un po' diventa una questione d'orgoglio. In più sto bloccando la strada agli altri, e la cosa m'infastidisce e m'imbarazza. Per giungere in cima bisogna passare addirittura attraverso una fessura orrizzontale, quasi un passaggio in grotta da speleologo. Ironia della sorte è ciò che mi permette di tirare il fiato e di issarmi finalmente sul soppalco.
I miei passi risuonano sulle assi di legno un po' imbarcate del pavimento. L'ambiente è bello stretto. Ci sono dei divani contro la parete, e per passare bisogna farsi largo tra le gambe degli avventori seduti. Tra schiene e teste, nel salottino in fondo intravedo R***. La raggiungo. Qui, non so come, hanno fatto stare due divani uno di fronte all'altro con un tavolino in mezzo. Mi siedo mentre R*** si alza. Mi bacia sulla guancia e dice che torna subito e di presentarmi. Alzo gli occhi e lei è lì, seduta sul divano di fronte al mio.
La donna rossa.
Si sporge verso di me appoggiandosi al tavolino. Io faccio altrettanto finchè i nostri volti quasi si sfiorano. Ci guardiamo, vicinissimi, tanto chè posso mettere a fuoco i dettagli ma il viso nella sua interezza è fuori dalla mia portata. La sua carnagione eburnea è ricoperta di minutissime e deliziose efelidi. I suoi occhi sono di un azzurro limpido e brillante. Un ciuffo dei suoi splendidi capelli rossi le cade sul viso, lei lo allontana passandolo con noncuranza dietro l'orecchio, ma quello torna dov'era e lei decide d'ignorarlo. Questo mi permette di vedere che le sue sopracciglia sono del medesimo colore dei capelli. Addirittura anche le sue ciglia lo sono, sebbene un poco più scure. Le sue labbra, invece, sono d'un rosso molto più acceso anche se non sembra portare rossetto. Mi sento tremare dalla testa ai piedi quando lei mi accarezza la guancia con la sua, e inizia ad avanzare carponi sul tavolino verso di me. Io indietreggio mentre lei si avvicina. Le sue mani lasciano l'appoggio del tavolo e trovano quello delle mie gambe. Lo schienale del divano m'impedisce d'indietreggiare oltre. Sento le sue labbra sul mio collo. E tutto si dissolve nel buio.
E piove.
Corriamo nella notte piovosa tenendoci per mano. Lei ride divertita, trascinandomi tra le piante di un grande giardino, al centro del quale si scorgono le finestre illuminate di una casa. Ride, mentre i capelli fradici le aderiscono alla fronte, la camicia le aderisce alla pelle. Oltre a quella indossa shorts e sandali con tacchi altissimi. Parole nella mia mente. "...e piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggeri, sui freschi pensieri che l'anima schiude novella, sulla favola bella che ieri m'illuse e oggi t'illude, Ermione."
Mi conduce al portone di casa, che apre con una semplice spinta. Entriamo in una sala buia, l'attraversiamo. Attraversiamo tutta la casa e torniamo ad uscire dalla porta posteriore. Un'altra corsa sotto l'acqua scrosciante. Una dependance ad un piano, semisepolta dalla vegetazione, appare improvvisamente davanti a noi. Ci fermiamo davanti alla porta e lei mi guarda sorridendo, come in attesa. E' bagnata come un pulcino. E' assolutamente adorabile.
"Allora?" dice ridendo. Io la guardo, è l'unica cosa che posso fare.
"Le chiavi!" esclama, giocando ad essere spazientita. Continuo a non capire.
"Avanti!!" Ride e cerca d'infilarmi la mano nella tasca dei jeans. Io la precedo e con mia sorpresa trovo un anello con due chiavi che non ho mai visto.
"Dài, dài!" Inserisco la prima chiave e la giro. La porta si apre. Lei mi prende per la camicia e mi tira dentro ridendo come una bambina.
Camminiamo su una moquette così spessa che sembra di avanzare su uno strato di gommapiuma. I piedi affondano nel pavimento che presenta anche una serie di dossi e avvallamenti. Il soffitto è bassissimo. Allungando un braccio lo tocco con facilità. Molte candele illuminano le stanze in cui mi conduce la ragazza. Sono tutte disordinatissime, con oggetti e indumenti sparsi qua e là su mobili e sul singolare pavimento ondulato, ma è un disordine che non sembra infastidirmi. Cerco di riconoscere alcuni degli oggetti sparsi. Un foulard, una bottiglietta vuota di cristallo con un vaporizzatore color ocra, un libro, un trenino di legno con tre vagoni passeggeri, locomotiva e tender, un pupazzo di gomma a forma di rana.
"Questo è il mio regno," dice lei sorridendo. "Qui posso fare tutto ciò che voglio." Ha recuperato una salvietta e stà provando ad asciugarsi i capelli. "Fa come se fossi a casa tua," aggiunge. Io ho ancora in mano le chiavi. Mi siedo sul grande letto matrimoniale coperto da magliette, riviste e piccoli peluche, e la guardo mentre si asciuga, si sfila la camicetta bagnata, scalcia via le scarpe facendole rotolare in un mucchio in un angolo della stanza.
E mi sveglio. Maledizione, mi sveglio.

E' tutto il giorno che provo questa sensazione di esasperante frustrazione. Erano anni che non la vedevo. S'è dissolta così, davanti ai miei occhi, mentre invece prendevano forma i raggi di sole che filtravano dalle tapparelle della mia camera da letto.

Non è giusto. Ormai non trovo pace nemmeno nei sogni.