dreams of a redhead

La donna rossa è comparsa di nuovo nei miei sogni.
Non sò chi sia.
La prima volta che la sognai avevo vent'anni, e al mio risveglio dovetti fare doccia e bucato. Non ricordo bene i dettagli del sogno, solo la sua carica erotico esplosiva, i lunghi capelli mossi rosso carota della mia amante onirica, la sua pelle delicata e diafana, le sue dita minute sul mio petto. Ma non il volto. Quello non sopravvisse al risveglio.
La seconda volta invece ero a due giorni dalla discussione della tesi. Nel sogno la riconobbi tra la folla di un locale alla moda, dalla quale la estrassi prendendola per mano conducendola poi da qualche altra parte non bene definita. Questa volta l'erotismo fu soppiantato da una singolare intimità. Forse ricordo un bacio, all'ombra di un porticato, e di sicuro una felicità che può trovarsi solo nei sogni. Nient'altro.
Può darsi ch'io l'abbia sognata altre volte, non so.
La notte scorsa è tornata.



Nel sogno mi trovo in un qualche locale nel bel mezzo di una ressa rumorosa, una selva di bicchieri multicolori. L'ambiente è un po' rustico, con vecchi mattoni a vista, mobili in noce scuro d'arte povera, tegami di rame appesi in vece di quadri. D'un tratto sento una voce familiare chiamarmi. Alzo gli occhi e mi rendo conto di un soppalco stretto, una specie di ballatoio, che corre lungo la parete più lunga della stanza. R***, una mia cara amica, in un abito da sera che non credo possegga veramente, si sporge dalla ringhiera agitando un braccio.
"Ehiiiiiii!" mi chiama con la sua consueta allegria.
Agito il braccio anch'io per farle vedere che l'ho vista.
"Vieni su!" continua. "Dài vieni! C'è una persona che devi conoscere!!"
Rimango un attimo interdetto. Una persona? Provo l'impulso di sgattaiolarmene via alla chetichella, ma svanisce subito. Cerco il modo di raggiungere il soppalco. Stranamente, non vedo scale. Rimango pietrificato quando scopro che per salire c'è una specie di percoso in arrampicata, con appigli metallici e incavi nel muro. Ma sono matti?! Per scrupolo provo a salire, ed è effettivamente difficile come sembra. Dopo un po' diventa una questione d'orgoglio. In più sto bloccando la strada agli altri, e la cosa m'infastidisce e m'imbarazza. Per giungere in cima bisogna passare addirittura attraverso una fessura orrizzontale, quasi un passaggio in grotta da speleologo. Ironia della sorte è ciò che mi permette di tirare il fiato e di issarmi finalmente sul soppalco.
I miei passi risuonano sulle assi di legno un po' imbarcate del pavimento. L'ambiente è bello stretto. Ci sono dei divani contro la parete, e per passare bisogna farsi largo tra le gambe degli avventori seduti. Tra schiene e teste, nel salottino in fondo intravedo R***. La raggiungo. Qui, non so come, hanno fatto stare due divani uno di fronte all'altro con un tavolino in mezzo. Mi siedo mentre R*** si alza. Mi bacia sulla guancia e dice che torna subito e di presentarmi. Alzo gli occhi e lei è lì, seduta sul divano di fronte al mio.
La donna rossa.
Si sporge verso di me appoggiandosi al tavolino. Io faccio altrettanto finchè i nostri volti quasi si sfiorano. Ci guardiamo, vicinissimi, tanto chè posso mettere a fuoco i dettagli ma il viso nella sua interezza è fuori dalla mia portata. La sua carnagione eburnea è ricoperta di minutissime e deliziose efelidi. I suoi occhi sono di un azzurro limpido e brillante. Un ciuffo dei suoi splendidi capelli rossi le cade sul viso, lei lo allontana passandolo con noncuranza dietro l'orecchio, ma quello torna dov'era e lei decide d'ignorarlo. Questo mi permette di vedere che le sue sopracciglia sono del medesimo colore dei capelli. Addirittura anche le sue ciglia lo sono, sebbene un poco più scure. Le sue labbra, invece, sono d'un rosso molto più acceso anche se non sembra portare rossetto. Mi sento tremare dalla testa ai piedi quando lei mi accarezza la guancia con la sua, e inizia ad avanzare carponi sul tavolino verso di me. Io indietreggio mentre lei si avvicina. Le sue mani lasciano l'appoggio del tavolo e trovano quello delle mie gambe. Lo schienale del divano m'impedisce d'indietreggiare oltre. Sento le sue labbra sul mio collo. E tutto si dissolve nel buio.
E piove.
Corriamo nella notte piovosa tenendoci per mano. Lei ride divertita, trascinandomi tra le piante di un grande giardino, al centro del quale si scorgono le finestre illuminate di una casa. Ride, mentre i capelli fradici le aderiscono alla fronte, la camicia le aderisce alla pelle. Oltre a quella indossa shorts e sandali con tacchi altissimi. Parole nella mia mente. "...e piove sulle nostre mani ignude, sui nostri vestimenti leggeri, sui freschi pensieri che l'anima schiude novella, sulla favola bella che ieri m'illuse e oggi t'illude, Ermione."
Mi conduce al portone di casa, che apre con una semplice spinta. Entriamo in una sala buia, l'attraversiamo. Attraversiamo tutta la casa e torniamo ad uscire dalla porta posteriore. Un'altra corsa sotto l'acqua scrosciante. Una dependance ad un piano, semisepolta dalla vegetazione, appare improvvisamente davanti a noi. Ci fermiamo davanti alla porta e lei mi guarda sorridendo, come in attesa. E' bagnata come un pulcino. E' assolutamente adorabile.
"Allora?" dice ridendo. Io la guardo, è l'unica cosa che posso fare.
"Le chiavi!" esclama, giocando ad essere spazientita. Continuo a non capire.
"Avanti!!" Ride e cerca d'infilarmi la mano nella tasca dei jeans. Io la precedo e con mia sorpresa trovo un anello con due chiavi che non ho mai visto.
"Dài, dài!" Inserisco la prima chiave e la giro. La porta si apre. Lei mi prende per la camicia e mi tira dentro ridendo come una bambina.
Camminiamo su una moquette così spessa che sembra di avanzare su uno strato di gommapiuma. I piedi affondano nel pavimento che presenta anche una serie di dossi e avvallamenti. Il soffitto è bassissimo. Allungando un braccio lo tocco con facilità. Molte candele illuminano le stanze in cui mi conduce la ragazza. Sono tutte disordinatissime, con oggetti e indumenti sparsi qua e là su mobili e sul singolare pavimento ondulato, ma è un disordine che non sembra infastidirmi. Cerco di riconoscere alcuni degli oggetti sparsi. Un foulard, una bottiglietta vuota di cristallo con un vaporizzatore color ocra, un libro, un trenino di legno con tre vagoni passeggeri, locomotiva e tender, un pupazzo di gomma a forma di rana.
"Questo è il mio regno," dice lei sorridendo. "Qui posso fare tutto ciò che voglio." Ha recuperato una salvietta e stà provando ad asciugarsi i capelli. "Fa come se fossi a casa tua," aggiunge. Io ho ancora in mano le chiavi. Mi siedo sul grande letto matrimoniale coperto da magliette, riviste e piccoli peluche, e la guardo mentre si asciuga, si sfila la camicetta bagnata, scalcia via le scarpe facendole rotolare in un mucchio in un angolo della stanza.
E mi sveglio. Maledizione, mi sveglio.

E' tutto il giorno che provo questa sensazione di esasperante frustrazione. Erano anni che non la vedevo. S'è dissolta così, davanti ai miei occhi, mentre invece prendevano forma i raggi di sole che filtravano dalle tapparelle della mia camera da letto.

Non è giusto. Ormai non trovo pace nemmeno nei sogni.

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