black nightmare

Uno scrittore americano dedito prevalentemente alla sf mi colpì anni fa con un racconto intitolato "I colori dell'incubo". Tanto da farmi scrivere una risibile poesia dallo stesso titolo. Comunque il racconto era una serie di frammenti estremamente drammatici (non di fantascienza), dove la qualità dell'elemento disturbante illuminava ogni episodio di uno specifico colore. Il più angosciante penso che fosse l'incubo in grigio. In esso si seguiva un giovane uomo i cui propositi erano prendere in mano la propria vita. Era profondamente innamorato di una bellissima donna, e in cuor suo sapeva di essere ricambiato. Nella sua mente prendevano forma progetti per la sua vita felice, per la sua famiglia felice. Si percepiva l'immane forza delle sue aspettative, della sua voglia di vivere, di amare. Davanti al portone della casa del suo amore, un bel mazzo di fiori in una mano, bussava al colmo dell'eccitazione. Ma quando la porta si apriva, si trovava di fronte una bambina che dapprincipio non riconosceva e che, dopo uno scambio di battute confuse, esclamava verso il cuore della casa: "Mamma! C'è il nonno! Ha avuto un altro dei suoi attacchi!" E all'improvviso gli tornava in mente il necessario per capire. Riconosceva il suo corpo affranto dalla vecchiaia, il grigiore della sua pelle e quello dei suoi giorni a cui era negato il conforto dei ricordi. Aveva già vissuto, e non lo rammentava più.

Dico questo a causa di un breve black-out accaduto la notte scorsa, che mi ha colto impreparato durante la traversata del mio smisurato corridoio. A tentoni, ho raggiunto la camera da letto e il letto, sdraiandomi in attesa che tornasse la luce. Cosa che avvenne nell'arco di pochi minuti. Ma in quei pochi minuti ho rivissuto il mio incubo in nero.

Maggio dello scorso anno. Sento, dopo un lungo e comprensibile silenzio, La Treccia al telefono. Lotta per superare la fine della sua storia, anche la sua voce sembra piegata dalla sofferenza. Decidiamo di uscire a mangiare un boccone, e già nel proporre l'idea provo un'anteprima del senso d'impotenza che mi prenderà allo stomaco durante la cena. Però va fatto. Non mi tiro indietro, nonostante ormai io sia più che certo che tra breve, tra molto breve (e precisamente una settimana più tardi) anch'io avrò il mio bel dafare per rimuovere le macerie della mia vita sentimentale. Non mi tiro indietro, gli amici ci sono per questo.
Fa caldo per essere i primi di maggio. La raggiungo in strada davanti a casa mia, notando subito il suo pallore, il suo volto eroso dal pianto come una vallata carsica. Bacio, bacio. Per sdrammatizzare un po' azzardo una battuta sulla sua guida. Accenno alla sua auto, parcheggiata col muso nella direzione opposta a quella prevista, e dico: "stai migliorando! accidenti! in retromarcia fin da casa tua!" Non ottengo che un mezzo sorriso, e il cuore mi sprofonda ancor più nel petto. Sarà una lunga serata.
Prendiamo la mia auto, ma facciamo poca strada. Decidiamo di sederci ai tavoli dell'estivo di un locale su Viale Cavour. Non più di trecento metri da casa mia.
Si parla d'inezie per qualche minuto, poi, in quel suo modo così controllato, discreto, così deliberatamente trattenuto che farebbe infuriare chiunque non la conoscesse da anni, inizia a parlare di sè. D'improvviso, e nonostante la versione edulcorata, mi trovo a combattere contro la furia di un duplice maelstrom, e le sono grato per esserci andata piano, anche se non so se consapevolmente o meno. L'ascolto ma non ho consigli. Non ne ho per me stesso. La lascio parlare, e alla fine dice anche le cose che dovrei dire io. Fortunato bastardo.
Inevitabilmente mi trovo a dover parlare di me. Non vorrei, e per due buone ragioni. La prima è che sono di fatto ancora insieme alla cantantessa, e mi secca far la figura di chi si lamenta senza ragione. La seconda, perchè nonostante il disastro incombente e ormai inevitabile non ho alcuna voglia di arrendermi. Mi limito quindi ad un quadro prudentemente pessimista e la cosa sembra disturbarla. M'inonda di considerazioni sulla logica femminile, sull'emotività, sulla sessualità, di consigli che non capisce che non potrei mettere in pratica nemmeno se lo volessi, tanto sono estranei dalla realtà della mia relazione. Ha del tragicomico che questa ragazza così povera d'esperienza si senta di tenere lezione ad un veterano della catastrofe sentimentale solo perchè guarda sempre LoveLine su Mtv. Alcune delle cose che dice mi feriscono, per la loro inusitata cecità, ma comprendo anche che per lei è un tentativo di rivincita. Vorrebbe con tutte le sue forze che almeno questo rapporto sopravvivesse.
Docile, l'ascolto dosando l'attenzione nei miei occhi, annuisco con tempestività, mentre il mio cuore s'è ritirato in un luogo lontano e silenzioso, a mala pena raggiungibile anche da me stesso. Finchè, ai margini della mia coscienza, percepisco alcune parole ed è come sbattere il muso contro un vetro. Ritrovo la mia attenzione.
"...non devi mai dirle che hai paura di perderla!"
Si ferma e mi guarda, intuendo qualcosa dal mio viso. E io intanto vengo risucchiato da una mattina assolata, la luce che entra obliquamente nella stanza da letto dalla parete a vetro, la cantantessa e io, sotto le coperte, che immergiamo le mani ciascuno nelle lacrime dell'altro. E io che dico esattamente quelle parole. Esattamente quelle.
Leggo la comprensione negli occhi della Treccia, che si fanno d'un tratto gelidi e duri. Che sembrano dire, anzi, sembrano gridarmi in faccia: "Cos'hai fatto, maledetto stolto?! Hai rovinato tutto! Tutto!!"
Ci salutiamo davanti a casa mia. La guardo faticare col volante e poi mettersi bene in carreggiata. Ho una sete maledetta a causa dei pop-corn che ho mangiucchiato durante tutta la sera. Apro il frigo in cerca di un succo di frutta e improvvisamente l'oscurità cade su di me. Chiudo la porta del frigo e raggiungo a tentoni il balcone. E' buio. Tutto il quartiere è avvolto da un'oscurità primordiale e spaventosa. M'appoggio alla ringhiera, svuotato di me stesso. Il buio, il nero, il vuoto. Il mio destino.

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