NY state of mind

Convalescente dall'operazione all'occhio destro, mi aggiro per casa spossato e inquieto cercando di raggruppare le idee con un vecchio scopettone. Sono in questa casa da tre settimane e sotto i mobili ci sono già gatti di polvere di dimensioni sconcertanti.
Una telefonata che rimandavo da mesi, e che col senno di poi avrei fatto bene a rimandare per sempre, ha spalancato la botola delle segrete sotto i miei piedi. Orribili strumenti di tortura mi circondano, ed io devo scegliere, come in un telequiz, come intrattenere il pubblico. Sceglierò la rapida abbronzatura dei tizzoni ardenti sulla pelle, oppure farò stretching sulla ruota?
Poi una corda mi viene gettata dall'alto, e mi arrampico verso la salvezza, a ritrovar la luce e il mio salotto.
Riconosco il sorriso benevolo del mio salvatore. Vi passo sopra le dita esitanti in una calma successione di timidi accordi, seguiti da un arpeggio che sembra più gatta Miciona quando camminava sulla tastiera per raggiungere il divano. Fa tutto un altro effetto, qui nel salotto nuovo di via Palestro. Prima, sepolto nelle catacombe scavate sotto casa dei miei, alcuni chilometri dalla superfice terrestre, potevo suonare e cantare -- dare, insomma, il peggio di me -- anche alle quattro di notte e nessuno (proprio nessuno) se ne sarebbe accorto. Ora, questa vetrata che dà sulla corte lascia uscire tutto, troppo, verso le orecchie di chi sta negli appartamenti, negli uffici tutt'intorno. Di mattina, poi.
Nondimeno (ho sempre sognato usare questa parola), mano a mano che riprendo confidenza con i tasti, considerata tutta la mia goffaggine pianistica, il pubblico incidentale del vicinato sembra perdere importanza. Quello che faccio qui dentro sono affaracci miei. E in questo momento sono impegnato ad arginare un'invasione di mori dalle lunghe sciabole, che vogliono farmi il cuore a fettine come un salame all'aglio.
Ci prendo gusto, anche se la mano sinistra ha una crisi d'identità e crede di essere in legno massello. Ecco i quattro maestosi accordi di una canzone che ho scritto anni fa. Poi un'improvvisa e alquanto imbarazzante amnesia sul seguito. Come al solito: qualsiasi cosa io faccia, parto bene per poi scemare nel nulla... Un po' di disciplina. Accenno uno stentatissimo Chopin prima d'interrompermi di nuovo. Non sono all'altezza, l'ho accettato da tempo.
Qualche accordo a caso, un arpeggio, la ricerca a orecchio delle note di una canzone che mi perseguita da giorni. Mi rilasso. Mi rilasso al punto che non mi accorgo di cantare un vecchio pezzo di Billy Joel.

Some folks like to get away
take a holiday from the neighborhood
Hop a flight to Miami Beach
or to Hollywood
But I'm taking the Greyhound
of the Hudson River Line
I'm on a New York state-of-mind

Bello. Erano secoli che non sentivo la mia voce uscire così sicura, così sciolta. E' una liberazione. Anche il testo è un indizio.

It goes down to reality
and it's fine with me
'cause I let it slide
I don't care if it's Chinatown
or if it's Riverside
I don't have any reasons
I have left them all behind
I'm on a New York state-of-mind

Naturalmente m'impapero nel finale. Ma ora che ci penso, non è così importante.

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