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Prendendo il caffè stamane ho notato come al barista si adattasse perfettamente la parola "volgare".

Non con (o per) cattiveria. Penso che sia un ottimo ragazzo. Volgare, ecco tutto. Il mio pensiero non era riferito all'individuo in sé, quanto all'individuo in relazione alla parola "volgare", e alla meravigliosa sensazione di una conferma. Come quella vaga esaltazione che prende osservando il mobile dell'Ikea dopo averlo montato. Dunque, ecco il motivo, l'essenza, l'esegesi vivente della parola "volgare". Con l'epidermide perennemente lampadata (d'inverno ai limiti dell'emorragia), le maniche già corte della camicia nera arrotolate fin sopra la spalla per mettere in mostra i muscoli rigonfi, quantità industriali di gel per capelli (che deve rappresentare una voce di un certo peso nel suo bilancio), palpebra perennemente a mezz'asta ad ostentazione di perenne disinteresse (per cosa? boh?).

Non è straordinario questo senso d'appartenenza? Di più! Questa equazione!

"Volgare" è il barista. Il barista è "volgare".

Esattamente come il barista di un altro noto bar del centro è "grezzo".

[Interpellato in merito replicava a sua difesa: "Mì grézz?! 'Nà merda!!"]

E se la cosa non si limitasse ai baristi? Se ciascuno di noi potesse essere rappresentato da un termine così prossimo a cogliere la nostra essenza, da poter sostituirsi al nostro nome, alla nostra foto? Non è affascinante tutto ciò? E io? Come mai potrei definirmi io?

Poi arriva la telefonata di Marta a sistemare tutto.

"Ciccione!!"

Ah, ecco.

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